Cultura e Spettacoli

D'Amicis crea «Il gioco» della crudeltà (e del sesso)

Fabrizio Ottaviani

In una sequenza di Berlinguer ti voglio bene uno spettatore di film a luci rosse, spazientito perché gli attori perdevano tempo in convenevoli, gridava «Troppa trama!». In seguito quella protesta è diventata la bandiera dei più oltranzisti critici letterari, gente che cade in adorazione quando in un romanzo incontra parole come «ebefrenico» (d'accordo, è Gadda) o si imbatte in frasi di cento parole (un'abitudine di Proust), ma storce il naso quando l'autore si dedica con impegno all'architettura del racconto, al volgare plot. Ora, perché mai passare giorni a grattare il fondo dei vocabolari per recuperare le mot juste debba essere meno degradante del passare lo stesso tempo a mettere a punto un delicato snodo dell'intreccio non lo sa nessuno: è un dogma, come la Trinità o la legge scolpita nel marmo secondo cui il livello dell'acqua della moka non deve superare l'altezza della valvola. A rimettere le cose in ordine, dimostrando che articolare la vita in una trama è un gesto di libertà, giunge Il gioco di Carlo D'Amicis (Mondadori, pagg. 526, euro 20, candidato al Premio Strega). Il tema del volume è una «vecchia e gloriosa perversione» segnalata già da Erodoto. Lo storico greco racconta che il re di Lidia, per convincere la sua guardia del corpo che la regina fosse bella, gliela mostrò nuda. Il «gioco» è attuato oggi in forma estremistica da una triade costituita dal cuckold, dal bull e dalla sweet, vale a dire dal cornuto, dalla moglie e dall'uomo supervirile al quale il «becco» cede la consorte. L'omosessualità latente e il sadismo dominano il campo assieme al masochismo morale, finché ognuno degli «attori» non solleva la maschera: il bull si rivela uno strumento del cuckold, il quale assume connotati manipolatori, mentre la sweet appare come il motore dell'intero meccanismo.

Nel romanzo di D'Amicis i tre si confessano a turno, in un vortice ermeneutico che fa pensare a Kurosawa. La sweet, Eva, ha alle spalle una storia familiare un po' stereotipata, il marito Giorgio è un primario che veste principe di Galles. La parte più riuscita è quella in cui Leonardo, il bull, si lascia intervistare da uno «scrittore». Professore di inglese in un liceo esclusivo di Roma dal quale è cacciato per aver palpeggiato una studentessa, Leonardo è il mistagogo che conduce il lettore nel pianeta proibito. E offre la chiave per decifrare il gioco: il padre, ufficiale dei carabinieri ucciso dalle Br, odiava le storie. «Poche storie!», il ritornello delle serate in famiglia. «L'italiano medio fa sesso al buio» dice un personaggio al bull.

Che invece vuole accendere, sulla sua vita notturna, riflettori che inquadrino un vasto teatro della crudeltà.

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