Cultura e Spettacoli

Come d'Annunzio lasciò sforbiciare ​docilmente Francesca da Rimini

Il lungo libretto del Vate fu riscritto e musicato da Zandonai e Ricordi per mettere in scena l'opera nel 1914

Come d'Annunzio lasciò sforbiciare ​docilmente Francesca da Rimini

I rapporti di Gabriele d'Annunzio con i musicisti - Debussy, Malipiero, Mascagni, Puccini, Pizzetti - non furono mai tranquilli: con Riccardo Zandonai lo furono, ma soltanto grazie alla presenza di Tito Ricordi. La lontananza (d'Annunzio era "in esilio" a Arcachon) e il carattere chiuso del musicista rendevano problematica la collaborazione diretta, e inevitabile la presenza dell'editore.
Ricostruiamo la vicenda con l'aiuto dei documenti conservati nell'Archivio del Vittoriale e di un saggio di Renato Chiesa per un convegno del 1983. Nel gennaio 1912 Zandonai neanche trentenne - scrive a Ricordi: «Ho riletto Francesca». Dieci giorni dopo, Tito prende contatto con il Vate: «Caro Gabriele, (...) dal tempo che hai lasciato l'Italia non credo sia giunto sino a te il nome di Riccardo Zandonai». Non ricevette risposta e sollecitò per telegrafo alla fine di marzo. D'Annunzio allora concesse il permesso di adattare la sua Francesca da Rimini, tragedia del 1901.
Tito suggerisce a Gabriele di lasciare al musicista il lavoro di riduzione. In realtà lo farà personalmente, insieme a Zandonai, e va a Parigi per trattare i diritti con il Vate. Sa bene che la richiesta sarà esosa, infatti il poeta, sempre a corto di denaro, chiede 25.000 lire, una cifra enorme. Giulio Ricordi, padre di Tito, non cede, ma riceve da Zandonai, una lettera di quattro facciate: lo supplica di accettare, pur di avere un testo del «più grande dei poeti italiani». Lui si accontentò di 3000 lire, e Gabriele ebbe le sue 25.000.
Zandonai aveva bisogno di «enormi tagli», scrive a Tito, «specialmente in ciò che riguarda la parte politica del soggetto, per lasciare emergere maggiormente il dramma». Lui e Tito potarono politica e fondo storico «dantesco» perché prevalessero passione e sogno. Poi i tre si incontrarono per la prima volta, a Parigi, alla fine di maggio, con il libretto già pronto. D'Annunzio lo legge, in silenzio. Zandonai, emozionato, ricorda che alla fine della lettura d'Annunzio, «sereno e sorridente», si alzò, strinse la mano a Tito e gli disse, testualmente: «Bravo, Tito; sei veramente un uomo di teatro; la tua riduzione è perfetta e desidero che nella pubblicazione del libretto, accanto al mio nome figuri anche il tuo».
Il 2 novembre è proprio lui, il Divo, a chiedere notizie. «Mio caro Maestro, dal giorno ch'ebbi il lieto annunzio... penso alla nostra Francesca. Ha continuato il lavoro? con grande lena? Quando le sorti mi concederanno di udire almeno qualche frammento? Se può scriva una parola. E, se ha qualche dubbio o difficoltà nell'interpretazione del testo, non mi risparmi. Faccio voti per un nostro prossimo incontro. E le invio, coi miei saluti, i miei più vivi augurii. Il Suo Gabriele d'Annunzio». In realtà cercava quel contatto umano che gli era indispensabile nel lavoro, e che a Zandonai riusciva difficile. Non abbiamo traccia di una risposta del musicista, il 19 novembre è Tito a rassicurare il poeta: «Se lo Zandonai prosegue come ha cominciato, sta pure certo che colla tua Francesca egli sorprenderà il mondo». Poi, il 3 dicembre, un telegramma: «Udito metà atto primo Francesca. Stupendo, meraviglioso. Evviva Gabriele, evviva Zandonai».
Al terzo atto, per la grande scena d'amore, il musicista deve trasformare «il fiume delle loro lettere sublimamente amorose in un fiume di note», scrive Renato Chiesa. Gli occorre addirittura cambiare un punto nel testo della tragedia, e Tito fa da intermediario: «Zandonai chiederebbe un brano lirico che si prestasse a un volo musicale». D'Annunzio non risponde, né accenna ad andare a Parigi per un incontro. Finalmente, il 21 maggio Zandonai informa un amico: «Il divo Gabriele arriva domattina: grande ingegno ma grande pazzo». Nell'aprile 1938, un mese dopo la morte del poeta, ricorderà: «La mia richiesta, che rispondeva ad un criterio puramente musicale, poteva sembrare ardua, poiché si trattava di creare una pagina nuova nella tragedia. D'Annunzio mi comprese immediatamente, approvò e promise che in giornata si sarebbe messo al lavoro. E mantenne la parola in modo insperato: tre ore più tardi Egli aveva composto e fissato su sette cartelle, in bellissima calligrafia, i versi mirabili che figurano nel 3° atto del libretto di Francesca: «Nemica ebbi la luce, / amica ebbi la notte e che culminavano in quel divino Ahi, che già sento all'arido fiato / sfiorir la primavera nostra! in cui è sintetizzata l'intera tragedia. Nell'accomiatarmi dal poeta, pensavo fra me che nessun librettista al mondo avrebbe accolto con tanta spontaneità la mia preghiera e si sarebbe dimostrato così pronto, comprensivo e arrendevole».
D'annunzio gli scrisse dal tumulto di Fiume, il 22 dicembre 1919, mentre Zandonai dirigeva la Francesca a Trieste: «Mio caro Zandonai (...). So quale accoglienza abbia fatto la nostra Trieste alla bella opera Sua; e mi rammarico di non poter venire al teatro se non con una autoblindata, che è veicolo incomodo e forse pericoloso. Si ricorda delle nostre sere parigine, quando Ella mi fece conoscere le prime scene? Quanti eventi da quell'ora e quanti drammi senza musica. (...) Si abbia un abbraccio dal Suo Gabriele D'Annunzio». C'è un'altra lettera, perduta, della fine del 1920, quando Fiume stava per cadere. D'Annunzio lo informava che avrebbe allestito, nella città occupata, la Francesca da Rimini. Voleva offrire musica come «pane» al popolo e ai soldati, rispettando quanto aveva scritto nella Carta del Carnaro, la costituzione fiumana.

Tra le sue tante opere musicate, scelse proprio quella di Riccardo Zandonai.

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