Cultura e Spettacoli

Desnica, il Proust croato che insegue i ricordi da un letto d'ospedale

"Le primavere di Ivan Galeb" è una sinfonia della memoria. Che usa la morte per dare vita

Desnica, il Proust croato che insegue i ricordi da un letto d'ospedale

In gergo editoriale si chiama «riscoperta». È la rinascita, in libreria, di un autore rimasto chiuso per anni, per decenni, nello sgabuzzino della letteratura. Ma in questo caso, pensandoci meglio, dovremmo parlare di «scoperta». Perché gli anni di carcerazione (di «ricovero», come vedremo) sono tanti, 46. Perché questa è la revisione della prima e unica traduzione al mondo dell'opera in questione, risalente al 1970, appunto, da Bietti. Perché se con Google cercate Vladan Desnica, scoprite che la scheda in italiano del volume che abbiamo sotto mano è più sola e unica di una mosca bianca in una miriade di occorrenze in lingue slave, con un pizzico di tedesco. Perché Le primavere di Ivan Galeb (Elliot, pagg. 383, euro 22, traduzione di Giovanni Bensi e Luca Vaglio) è davvero una scoperta di cui rallegrarsi. Qualcosa da collocare, in uno scaffale tematico, sullo stesso ripiano di La montagna incantata, di Alla ricerca del tempo perduto, di La morte di Ivan Il'ic, di Doctor Faustus.

E poi perché Vladan Desnica, nato a Zara nel 1905 e morto a Zagabria nel '67, voleva essere, e in parte era, un autore italiano. «Vorrei avere questo libro ben tradotto almeno in una delle grandi lingue del mondo, poiché così gli sarebbe aperta la strada anche verso le altre. E la traduzione italiana, alla quale collaborerei anch'io in qualche forma, riportando dei cambiamenti significativi rispetto all'originale e modificando del tutto liberamente, nello spirito della lingua italiana, alcuni brani, potrebbe essere più che una versione riveduta approvata dall'autore, quasi una versione o una redazione italiana del testo, con pari dignità rispetto all'originale», scrive nel 1958 al poeta e traduttore Eros Sequi. Traduttore a sua volta di alcuni saggi di Benedetto Croce, Desnica, dalla sua Zara s'affacciava sulla cultura italiana, assorbendone, ben oltre i confini dell'infanzia e della giovinezza austroungariche, i sapori mediterranei, che seppe mixare con quelli balcanici e slavi. Le primavere di Ivan Galeb, suo secondo e ultimo romanzo, è un'autobiografia sentimentale, filosofica, artistica, appena deformata da una minima griglia biografica del parlante, Ivan Galeb, appunto. Siamo nel 1936 (anno in cui, peraltro, Desnica inizia la stesura del libro, proseguita per un ventennio), e Ivan, ormai anziano, si trova ricoverato in ospedale per una malattia di non poco conto. Nulla a che vedere, clinicamente, con l'incidente occorsogli molto tempo prima quando, a causa di una ferita a una mano, si vide troncata la promettentissima carriera di virtuoso violinista, accontentandosi di suonicchiare qua e là, quasi da dilettante. L'ospedale è quello della sua cittadina natale che aveva lasciato da giovane per inseguire i sogni di gloria. Ivan, in sostanza, muore lì, su quel letto, subito occupato da Vladan il quale, come Proust in boulevard Haussmann, sgrana il rosario dei ricordi. «Attraverso le imposte socchiuse entra un fascio di luce che riflette sul soffitto bianco l'immagine del mondo esterno». Ecco, la madeleine di Vladan è la luce. La stessa luce marina, magica, ancestrale della casa natia. Quella luce si accende su un bambino introverso e sulla sua famiglia. La dolce mamma che prima di dare il bacio della buonanotte si sofferma, credendo di non esser vista, di fronte alla fotografia del marito, morto, dicono, in mare. Il nonno sindaco, liberale e austero, dominus del salotto dove tiene le riunioni con i suoi seriosi collaboratori. Le zie zitelle per vocazione, figure grottesche e teatrali nella loro somiglianza che pare finta, meccanica. Lo zio fragile, malaticcio.

È l'ouverture di una sinfonia che alza il sipario su una grande e densa rappresentazione dove le incursioni à rebours, risalendo la corrente del tempo, sono inframmezzate dal ritorno all'«oggi» dell'ospedale. Da Calpurnia, il primo amore, figlia di un attore italiano, ai rumori che provengono dalla stanza accanto; dagli amici Petar e Ivan (omonimo ma non omologo) ai sorrisi di circostanza del medico; dall'incendio che distrugge un'altra casa, quella dell'Ivan marito e padre a sua volta, all'intenso non-dialogo con il compagno di stanza Radivoj, ardente rivoluzionario massacrato dalla polizia; dall'incontro, nella maturità, con fra Angelo, il vecchio insegnante (magistrale il loro confronto sulla religione), alla struggente parentesi del piccolo contadino cieco con i capelli biondi pieni di luce solare, al quale il Nostro concede di maneggiare il suo violino, lacerto di un'altra dimensione, di un altro mondo...

Le pagine di Vladan Desnica ci confermano che soltanto i grandi libri non hanno bisogno di essere scritti, è sufficiente che siano ricordati. Che la pesca migliore è quella fatta nel proprio mare interiore, dove anche l'apparente bonaccia agita le acque in una tempesta che impedisce di tenere la rotta voluta, e alla quale l'unico modo per scampare è abbandonarvisi senza pudore, senza vergogna, senza paura. Ivan-Vladan, come l'Adrian Leverkühn di Mann, prima combatte con il Diavolo dell'insoddisfazione e della dissoluzione, poi sigla con lui un patto. La malattia, diversa da quella che gli portò via la figlioletta Maja, più subdola, più «borghese» e dunque a lui congeniale, è la cassa di risonanza utile ad amplificare l'arte della memoria, distillata nell'arte della narrazione. La malattia è in fondo ciò che all'uomo sottrae la «volontà». È l'extrema ratio per uscire dai vincoli della natura. «La volontà si sviluppa a discapito della fantasia e della sensibilità». Ivan-Vladan della prima fa a meno, perché desidera votarsi alla seconde.

Regalandoci l'opera di una vita.

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