Cultura e Spettacoli

Discesa agli inferi senza riscatto

Nelle sale «Milano in the Cage», storia di emarginazione e violenza

Claudia Gualdana

Rocco non ha fratelli. Forse è nato in periferia, vive in quella Milano che la borghesia si ostina a non vedere. Oggi si chiama Alberto Lato e il suo bisogno di riscatto passa attraverso le miserie di un buttafuori. Passa le notti fuori dai locali con la faccia tatuata che mette paura ai figli di papà ipocriti che portano lì le fidanzate, ignari del fatto che spesso Alberto dà loro una ripassata nei bagni. L'accostamento a Rocco e i suoi fratelli di Visconti sorge spontaneo vedendo il secondo film di Fabio Bastianello, Milano in the cage, presentato l'anno scorso a Cannes e appena arrivato nelle sale. Perché questo film è puro neorealismo. Attori non protagonisti presi dalla strada, a volte strappati alle tre ore di libertà concesse ai carcerati. Alberto Lato, protagonista della storia nella vita e sul grande schermo, interpreta se stesso. Piani sequenza e telecamere in terza persona la fanno da padrone in una Milano sulla quale non splende mai il sole. Perché è la Milano della notte, della quale al massimo si subodora l'alba. Le luci artificiali, impietose, stagliano i profili di cubiste di night club, spacciatori e tossicomani, pesci piccoli della mafia calabrese. Disegnano la sconfitta di un lottatore di Mixed Martial Arts, che si combatte appunto dentro una gabbia, the cage. La discesa agli inferi di Alberto, gigante dal cuore buono, è fatta di droga, botte e solitudine in uno scantinato di periferia. Ed è profondamente vera questa Milano, sempre più lontana da se stessa. Guardando il film, si ha l'impressione che si potrebbe essere ovunque, anche in una città americana.

E se la boxe era lo sport del riscatto degli ultimi, ora nella metropoli lombarda non c'è spazio per la redenzione, neanche quella laica.

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