Cultura e Spettacoli

Le donne, l'armi, gli amori del capitano "pappagallo"

Visse fra '500 e '600, nomade per mare e terra. Incarnava, per Ortega y Gasset, lo spirito del «vecchio adolescente»

Le donne, l'armi, gli amori del capitano "pappagallo"

Nell'Italia intorno al XVII secolo la Spagna fu di casa, a un punto tale che, ancora nell'Ottocento, Benedetto Croce si divertiva a riportare su carta quella che era la sua abituale «passeggiata per la Napoli spagnola», contrappuntata dalle memorie sepolcrali «di gente d'arme, gente di toga, gente di zimarra e di corolla» sparse fra chiese, conventi e palazzi e di cui la lapide di Roderigo Nuñez de Palma faceva da icastico riassunto, allora come oggi non necessario di traduzione: «Fuy el que no soy - Soy el que no fuy - Seras el que yo soy - Espania me dío la cuna - Ytalia suerte y bentura - Y aqui es mi sepultura».

Erano quelli tempi duri, e di gente dura, quando la Spagna era la maggior potenza del mondo e il Mediterraneo ancora il cortile di casa dove Oriente e Occidente si davano appuntamento alternandosi nel ruolo di selvaggina e di cacciatore, un'epoca che, nella sua bella introduzione alle Avventure del capitano de Contreras (Longanesi, pagg. 254, euro 18,60, traduzione di Ettore de Zuani), Mauro Cicala definisce «il secolo del soldato», l'eterno guerreggiare di un continente inquieto e dove più che gli eserciti era la soldataglia a farla da padrone. Si trattava di «gente miserabile», per dirla ancora con Benedetto Croce, «cacciata alle insegne militari dalla fame, ma anche in non piccola parte gente senza scrupoli, che poteva fare indifferentemente il soldato o il brigante, e che, per isfogare le sue violente passioni, dava di piglio, belluinamente, nell'avere e nel sangue».

Sotto questo profilo le memorie di Alonso de Contreras ne sono lo specchio fedele, a partire dalla pura e semplice esteriorità, l'uniforme che non era tale, ma il frutto del saccheggio, della vanità, della necessità... Sentite come il nostro capitano si presenta a una parata al largo del Palazzo reale di Napoli e alla presenza del re: «Portavo armi azzurre a fiamme d'oro, calzature di camoscio tutte ornate d'oro, maniche e colletto dello stesso genere, una montagna di piume azzurre, verdi e bianche sulla celata, e una sciarpa rossa ricamata d'oro, così larga che poteva servire di coperta a un letto». Era un po' il pavoneggiarsi del «papagayo», il pappagallo, come osserva ancora Cicala, «l'aspetto multicolore da uccello tropicale» che giustificava quel soprannome e rendeva quel tipo di soldato «un arlecchino borioso e grottesco, ma nondimeno temibile».

Nato nel 1582, morto probabilmente nel 1641, riscoperto in Spagna all'inizio del Novecento, quando uno studioso si imbatté in quel suo memoriale rimasto incompiuto, tradotto un decennio dopo in Francia e nel 1946 in Italia, de Contreras fu per Ortega y Gasset il perfetto esemplare dell'avventuriero come «vecchio adolescente», ovvero un tipo umano incapace di «immaginare il proprio futuro. Viene al mondo con una fantasia atrofizzata. Guarda all'avvenire, incluso il più immediato, e non vede nulla». Forse è anche per questo che nel raccontarsi, come puntualizza Arturo Pérez Reverte nella prefazione al volume, «vanno al sodo senza giri di parole, descrivono azioni, scontri, traversie, risse per donne, intrighi cortigiani, duelli, abbordaggi, venture e sventure, con la naturalezza di chi per lunghi anni ha affrontato queste cose come rischi di un mestiere».

Scritte inizialmente in undici giorni, durante un soggiorno romano del 1630, riprese tre anni dopo a Palermo e però mai terminate, queste avventure non sono solo la biografia di un ragazzino violento fin dal suo primo apparire (un compagno di scuola ammazzato a coltellate) e poi un eterno nomade fra mare e terra, fra colonie e madrepatria. Sono anche il curioso racconto di scrupoli religiosi, intermezzi di penitenze e di ascesi, la spada e il cilicio portati come se l'una fosse la continuazione dell'altro, una religiosità che va di pari passo con la superstizione, e insieme un'idea della contrizione che necessita sempre e comunque del peccato, una sorta quasi di condizione esistenziale, mi pento, dunque sono... È anche il frutto del contrasto fra una Spagna funerea, altezzosamente nobiliare e clericale, dove il mestiere delle armi permette di scegliersi cieli più azzurri e orizzonti più luminosi, terreno d'azione per un'ascesi sociale, il bottino di guerra che porta con sé il rispetto, il rispetto che modifica la condizione di partenza. Come, osserva ancora Pérez Reverte, «per uomini come Contreras le cose sono semplici: bisogna andare avanti anche a costo della pelle. Tra la penna, la tonsura o la spada, scelgono quest'ultima».

Forte di un linguaggio vero, amalgama di un parlato e della lingua franca che risuonava nei porti del Mediterraneo dell'epoca, l'autobiografia di de Contreras è un documento affascinante proprio perché scritto senza alcuna ambizione letteraria, privo di trucchi e di tecniche narrative e quindi straordinariamente vivo, la vita in diretta di una vita di corsa.

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