Cultura e Spettacoli

Donne, soldi, film: il Belmondo di Bébel

Da pagliaccio a icona dei cinefili. Complici Godard e un fascino irresistibile

Donne, soldi, film: il Belmondo di Bébel

Brutto e negato. Mai avrebbe potuto fare l'attore e men che meno stringere tra le braccia una donna, sia pure per scena. Invece Jean-Paul Belmondo, 84 anni e 80 film nella sua lunga carriera trascorsa a baciare B.B., abbracciare C.C., far l'amore con Jean Seberg e flirtare con Romy Schneider, nonostante - e forse proprio per - il naso schiacciato da pugile e i labbroni prensili da negro bianco, di sfizi se n'è cavati molti.

A partire dall'irrefrenabile voglia di fare il balordo, organizzare risse, correre sui bolidi, deludere tutti, rubacchiare e trafficare tra Parigi, Tunisi e Roma. Sempre scolando bottiglie di whiskey, tirando tardi e di boxe, incantando i moderni come Edith Piaf, che diceva: «Esco con Alain Delon, ma torno a casa con Belmondo». Se Alain era Il Bello che piace, «Bébel» era Il Brutto che piace e che quaglia: amici, amori, macchine di lusso e Godard. Soprattutto Godard, il re della Nouvelle Vague che Cannes ora omaggia nell'atteso biopic di Hazanavicius Le Redoutable, ma che l'attore ha conosciuto per strada nel 1959. A quello svizzero del Vaud, che non si radeva, né pettinava, fumando Bayard gialle con infinita tristezza, Jean-Paul deve infatti la sua profonda trasformazione: da pagliaccio di Saint-Germain a icona dei cinefili internazionali, grazie al film di culto Fino all'ultimo respiro. Lo racconta lui stesso nella divertente autobiografia Mille vite, la mia (che Donzelli presenta al Salone del Libro di Torino, pagg. 240, euro 26), scritto, in realtà, da Sophie Blandinières, con l'aiuto di Paul Belmondo, figlio della star.

«Venga nella mia camera d'albergo, faremo qualche ripresa e le darò 50.000 franchi», fu l'approccio di Godard, col quale avrebbe girato Una donna è una donna e Pierrot le fou. «Bébel» pensò subito a qualcosa di pecoreccio, ma andò lo stesso in quella camera, dove il regista girava Charlotte et son jules. Una ragazza rubava lo spazzolino a un ragazzo e se la filava: tutto lì. «Una regia senza regia. Maschere siamo e maschere restiamo», ricorda Belmondo, affascinato da quel modo libero di lavorare, dove l'improvvisazione è tutto. Di lì a poco, la proposta di fare il protagonista di Fino all'ultimo respiro, di cui Jean Cocteau avrebbe detto: «Quel giovanotto è una spanna sopra tutti gli altri». L'attore non si ferma a pensare a che cosa volesse Godard, «perché non lo sa neanche lui», ma è felice: «finalmente posso pisciare in un lavandino, fumare nudo a letto e fare l'amore sotto le lenzuola». Quattrocentomila franchi di paga, critici entusiasti e promozione a «seduttore con fisico da bullo» ricompensano gli stenti degli inizi. Di quando il Conservatorio, nel 1944, lo butta fuori, perché è «ancora un bambino da circo», annoiato dalle visite al Louvre che il padre scultore infligge alla famiglia ogni domenica, ma attratto dall'odore dei corpi nudi delle modelle di papà, decorato con la Legion d'onore da De Gaulle in persona.

È al Conservatorio che il professor Dux gli preconizza: «Lei non terrà mai tra le braccia una donna, in un film o a teatro». Sarà la madre Madeleine, donna forte e allegra, definita «Sposa Coraggio» perché, durante la seconda guerra mondiale, seguì il marito soldato di guarnigione in guarnigione, a incoraggiarlo: «Se vuoi fare l'attore, ce la farai. Basta volerlo». Intanto, con gli amici squattrinati dalle «suole al vento» Jean Rochefort e Françoise Fabian, celebra notti di battone e bohéme, alternate a pranzi con gli amici di papà, Pierre Brasseur e Vlaminck. Da una parte, si sente figlio di Saint-Germain-des-Prés, nei favolosi anni del dopoguerra parigino, dove incontrava Boris Vian a La Coupole o rubava la bottiglia del latte davanti a casa Sartre-De Beauvoir; dall'altra, sogna di fare l'attore di teatro. Ma «il gusto di fare il buffone era scritto nel mio DNA», riflette lui, facendo propria la frase del «nemico pubblico n.1», Jacques Mesrine: «Non scrivete la parola fine».

«Bébel» ha ancora fame di vita, anche se non brucia più l'asfalto al volante d'una Ferrari.

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