Cultura e Spettacoli

Due dobermann vivi in esposizione: al padiglione tedesco l'arte (non) azzanna

Folla di vip, curatori e cronisti. Tutti cliccano, riprendono e condividono: sarà la Biennale dei social. I vegani protestano ma c'è più tessile che politica

Due dobermann vivi in esposizione: al padiglione tedesco l'arte (non) azzanna

L'arte è viva, Viva l'arte. Venezia, oggi, «è» l'arte. Tutto il mondo la guarda, tutto il mondo «ci» guarda: Venezia dopo la finta pioggerellina mattutina - oggi è splendida. C'è sole, né freddo né caldo, come l'arte contemporanea in fondo. La giornata della preview della Biennale è perfetta. Appuntamento davanti al Padiglione centrale, ai Giardini. Ore 10: la prima performance è quella di centinaia di giornalisti, fotografi, artisti, curatori... ecco il popolo della Biennale En marche!. La curatrice è la francese Christine Macel: la sua è una Biennale né di destra né di sinistra. Va oltre gli steccati, va al di là della politica e anche oltre le ideologie. Il presidente della Biennale Paolo Baratta è sulla soglia: accoglie con un abbraccio la «sua» Christine, in giacca lunga di lamè, pochette nera e scarpe da ginnastica. C'è da camminare.

Si parte: una Biennale internazionale, due sezioni geografico/ideali i Giardini e l'Arsenale -, 120 artisti provenienti da 51 Paesi, un viaggio in nove capitoli (Artisti e Libri, Gioie e Paure, Spazio, Terra, Tradizioni, degli Sciamani, Dionisiaco, dei Colori, del Tempo) corrispondenti a nove padiglioni transazionali. Tante opere, tante riflessioni, tante idee, nessun percorso fisso. «Il visitatore non deve seguire una strada, ma il filo del racconto delle storie raccontate dagli artisti» spiega Christine Macel, rigorosa, elegante e snob come la sua Biennale. «I protagonisti sono loro. Io uso soltanto le loro opere per provare a dire che cos'è l'arte». Cioè quella cosa che trova tutte le relazioni possibili tra l'uomo e il mondo.

Il mondo della Biennale è enorme, e vorrebbe contenere tutti i mondi possibili. Il titolo l'unica cosa veramente brutta, Viva Arte Viva sembra una canzone di Ricky Martin significa tutto, tanto da non volere dire niente. Ma non dicendo niente, concettualmente, dice tutto. Venezia tracima d'arte in questi giorni, dentro e fuori la Biennale.

Fuori dalla Biennale l'occupazione degli alberghi è al 98%, per un business che tocca i 30 milioni di euro (il contemporaneo è un affare d'oro), mostre, feste e installazioni sono ovunque, gli yacht più sontuosi del mare sono già ormeggiati in Riva Sette Martiri, solo nei giorni della vernice gli accreditati sono 25mila e si prevedono fino a mezzo milione di visitatori da qui alla fine della manifestazione. Dentro la Biennale, infatti, c'è già un gran via vai di cronisti e di vip (il doge François Pinault, la compagna di Hollande, Julie Gayet, curatori vecchi e nuovi, da Achille Bonito Oliva a Massimiliano Gioni), c'è per fortuna poca politica, pochissimo digitale e tanto manuale (molto tessile...) e un tempo dilatato: dai Giardini al padiglione Italia in cinque ore (almeno) di girovagare stupefatto e compulsivo. La prima parte (quella ai Giardini) è più «fredda» e teorica. La seconda, quella all'Arsenale, più scenografica e coinvolgente. Attenti ai selfie: ogni nuova Biennale diventa la mostra più fotografata della storia. Si guarda, si scatta e si posta.

Alla Biennale c'è posto per tutto, e per tutti. Il figurativo, il concettuale, l'installazione, la provocazione. Si inizia con un grande workshop collettivo per costruire un futuro sostenibile, un laboratorio diffuso in cui gli artisti davanti al pubblico «fanno» la propria opera. Molti sono coinvolti. La stampa, soprattutto francese, è entusiasta. Roberto D'Agostino è critico: «Sembra un centro di accoglienza richiedenti asilo. Capisco l'intenzione di raccontare l'ansia del mondo e le tragedie dell'accoglienza, delle migrazioni e delle guerre... Abbiamo la disperazione, ma ci manca Guernica. Sento il dolore, in giro. Ma non vedo l'Urlo di Munch». La gente cammina, si incrocia, non urla ma parla fitto fitto. Ecco le due più giovani artiste in mostra, le filippine Katherine Nunez e Issay Rodriguez, nate nel 1992 e nel 1991: hanno (ri)costruito il loro studio con libri di stoffa e carte lavorate all'uncinetto per ridare significato nuovo agli oggetti comuni e rivendicare il tema dell'apprendimento. Ecco lo studio-supermarket dell'arabo Hassan Sharif come resistenza al sistema commerciale e consumistico. Ci sono i 44 (splendidi) tramonti in videowall di Charles Atlas. C'è per non farsi mancare niente, neanche la polemica dei «soliti» cattolici la grande Grotta Profunda Approfondita di Pauline Curnier Jardin che trasforma la grotta di Lourdes in una grotta a luci rosse (gli animalisti invece hanno già provveduto a presentare un esposto in difesa di due cani dobermann chiusi in una gabbia del padiglione della Germania, protagonisti della performance dell'artista Anne Imhof: temono siano soggetti a uno stress troppo forte davanti ai fotografi...). Ci sono i disegni a matita colorata (una deliziosa enciclopedia dell'Artico) dell'artista inuit Kananginak Pootoogook. C'è l'Enciclopedia di pane della sarda Maria Lai. C'è una gigantesca tartaruga in bronzo e ceramica della brasiliana Erika Verzutti. C'è al centro del corridoio principale dell'Arsenale, all'inizio del Padiglione degli Sciamani - l'avvolgente, enorme tenda (A Sacred Place) del brasiliano Ernesto Neto: riproduce la «Cupixawa», un luogo di cerimonie spirituali degli indios dell'Amazzonia, ma è perfetto per una panoramica a 360° con l'iPhone. Dalla socializzazione alla digitalizzazione. E c'è, in fondo, poco prima di rivedere la luce sopra la Gru Armstrong Mitchell&Co., sul bacino dell'Arsenale, la stupenda Scalata al di là dei terreni cromatici dell'americana Sheila Hicks, una cascata di giganteschi coloratissimi gomitoli che riconcilia con la giocosità dell'arte... La Biennale è viva, l'arte contemporanea così così. Adesso, tutti a pranzo al ristorante dentro il Giardino delle Bombarde. Dopo si ricomincia. Per riprendere il giro c'è tempo fino al 26 di novembre.

È lunga.

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