Cultura e Spettacoli

"Ecco il lato selvaggio dei ricchi"

Un'antropologa americana racconta (dall'interno) la vita delle "tribù" di Park Avenue

"Ecco il lato selvaggio dei ricchi"

Nei quartieri più ricchi e potenti del mondo, in cui vigono regole di comportamento uniche e indiscutibili, nei luoghi che rappresentano l'ultima frontiera dello show off, arriva un giorno degli anni Dieci del Duemila un'antropologa di Yale, Wednesday Martin. Bella, giovane, intelligente. E con tanta voglia di scrivere e descrivere l'Upper East Side di New York. Una comunità unica almeno quanto i samoani descritti da Margaret Mead negli anni Venti del '900. Naturalmente prima di avvicinare il branco la ragazza deve farsi accettare. Prima di carpirne i segreti deve comprenderne i meccanismi. Ma visto il risultato, ne è valsa la pena: Nella giungla di Park Avenue (De Agostini), in parte diario, in parte saggio di scienze sociali, dopo aver scalato le classifiche Usa e ora europee, ha venduto i diritti a Hollywood e ha reso l'autrice una delle massime esperte di analisi comportamentale delle famiglie miliardarie delle megacities globali.

I membri dell'upper class osservati come primati Può succedere solo a New York?

«Niente affatto. Io ci sono capitata per il mio matrimonio, ma quello che racconto accade anche a Londra, Hong Kong e nelle più grandi città del mondo, Milano compresa. Io ho puntato la lente soprattutto sulle famiglie, i cambiamenti delle madri e dei padri. Perché nell'Upper East Side e in generale nelle famiglie davvero ricche, i bambini oggi sono venerati e intorno a loro ruotano i meccanismi sociali. Certo sono i mariti ad avere il potere economico e le madri dipendono da loro».

Quindi che possono fare?

«Quindi le loro giornate sono regolate dalla prestazione: non mangiano, si consacrano alla palestra, sono schiave della perfezione, sublimano il sesso con la performance estetica».

Che cosa è cambiato nell'upper class di oggi rispetto a quella di fine Novecento?

«La prima cosa è l'aumento della maternità intensiva nelle classi di élite. Avere figli è imperativo: tre è il nuovo due, quattro è il nuovo tre. Il libro si concentra soprattutto sul rapporto con le tate e sul coinvolgimento richiesto dalla gestione dell'educazione dei bambini. Il gap tra classi sociali in questo è cresciuto e ormai ci sono decisamente due tipi di infanzia: quella dei ricchi e quella di chiunque altro».

I padri invece sono sempre uguali?

«Il secondo cambiamento è proprio lo straordinario impegno dei padri: sono devoti ai propri bambini. Passano i fine settimana con loro, li portano a scuola: tutto ciò era impensabile fino a cinque anni fa. Otto ore in media a settimana con i figli: inaccettabile per i padri anche solo della generazione precedente».

Accade solo ai padri ricchi?

«È un trend urbano e upper class, sì: gli uomini ricchi affrontano una nuova mascolinità. Non sono più spaventati dal poter sembrare femminili, scelgono gli abiti, curano la dieta, il training, l'estetica a livello top. La prima ragione è la presenza sui social, ovvio: se appaio su Instagram ogni giorno, devo essere perfetto. Però l'essere ricco cambia tutto, sei libero dalla costrizione di dover mostrare virilità a tutti i costi: vesti Tom Ford. Se sei davvero ricco e potente sei libero da ogni ideologia. La misoginia non è morta per nulla, ma sono le classi sociali più ricche che stanno reinventando i gender».

E i piccoli miliardari che ne pensano?

«Tutto dipende dai messaggi sociali che diamo loro: per ora l'upper class ha smesso di considerare la femminilità come un agente di infezione e la sta valorizzando, quindi i bambini crescono più aperti. Allo stesso tempo, i figli rimangono pezzi sulle scacchiere relazionali: se il tuo bambino gioca con il figlio di un ricco, allora puoi costruire un legame sociale con quel genitore, sei parte della stessa tribù. Negli Stati Uniti non abbiamo avuto l'aristocrazia: c'è molta mobilità sociale e quindi le regole comportamentali quando appartieni a una classe sono più rigide».

In questo ambiente, quanto ha contato essere colta?

«In America siamo diversi da voi. Alle donne europee è concesso essere intelligenti e sexy allo stesso tempo. Da noi, il capitale culturale ha zero valore, l'obiettivo culturale sono i soldi. In Francia hanno Saint-Exupéry sulle banconote, da noi una banca conta più di Yale. Da noi esistono le giornaliste o le docenti universitarie, non le intellettuali, cui è concesso esprimere un parere su tutto, come da voi possono essere state Fernanda Pivano oppure Oriana Fallaci».

Avrete o no una donna presidente quindi?

«Sarebbe già rivoluzionario se qualcuno dicesse che è importante. Ma non lo dice nessuno. L'idea di un presidente donna disturba molto più di quella di un presidente nero.

Tutti gli uomini hanno avuto una madre e vi posso assicurare l'idea che una donna diventi la persona più potente del mondo li turba parecchio».

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