Cultura e Spettacoli

Ecco perché l'Urss non poteva permettere la Primavera di Praga

Il Pcus, già in difficoltà, decise di bloccare ogni cambiamento negli "Stati satellite"

Ecco perché l'Urss non poteva permettere la Primavera di Praga

Nell'ottobre dello stesso 1964 la non breve stagione di Chruscëv giunse al termine. Differentemente da quanto avvenuto nel 1957 il gruppo di vertice raccolto nel Presidium (profondamente rinnovato negli ultimi anni) riuscì ad allontanarlo dalla carica di primo segretario in modo del tutto consono allo Statuto del Pcus, cioè con l'assenso del Comitato centrale. Finiva così la stagione degli esperimenti più o meno avventurosi e il Pcus tornava ad assestarsi, fino a indurre molti osservatori a parlare di vittoria dei conservatori o addirittura di una dirigenza neostalinista. Sebbene si restasse ben lontani dalle pratiche abusive e cruente degli anni staliniani, il regime sovietico cercò la stabilizzazione e il rilancio attraverso politiche piuttosto tradizionali nel settore economico e per mezzo della repressione nei confronti di quanti manifestavano dissenso verso di esso. Non si rinunciò al dialogo con la superpotenza statunitense o in genere con l'Occidente, ma allo stesso tempo non si intese dare eccessiva libertà ai Paesi satelliti nel momento in cui più aspra si faceva la polemica con Pechino. Pertanto si tollerò l'eresia romena e si prese atto delle distanze da Tirana e Belgrado, e inoltre si consentì l'avvio del nuovo corso economico in Ungheria. È difficile dire se a Mosca si avvertirono i prodromi della stagione delle riforme in Cecoslovacchia o, meglio, se si colse subito la novità che essa recava. Si può avanzare l'ipotesi che, dopo avere accettato novità autonomiste come quelle che venivano dalla Romania, o sperimentazioni liberaleggianti quali erano quelle volute da Kádár in Ungheria, al Cremlino non vi era molta propensione a sopportare ulteriori innovazioni, soprattutto se di maggiore significato.

L'idea del campo socialista, insomma, nonostante quanto sinora detto, restava solida: si trattava di mantenere in vita il socialismo inteso in senso sovietico in quanti più Paesi possibile, ma pure di salvaguardare la posizione di forza che l'Urss aveva guadagnato nel continente europeo. Se ciò è vero, l'affermazione del riformismo in uno dei regimi più allineati e ortodossi, come quello cecoslovacco, non poteva essere visto con simpatia e senza timori dal Cremlino e in altre capitali comuniste. Sarebbe sembrato strano che in Urss i dissidenti fossero sottoposti a controllo e processati, mentre si fosse consentito a un regime omologo di lasciare libertà di espressione e critica a militanti e semplici cittadini. E proprio questo come altri illustrerà nelle pagine seguenti si stava preparando in Cecoslovacchia, già dagli ultimi anni di Chruscëv. I dirigenti sovietici e di conseguenza il blocco che a loro faceva capo non erano pronti per sopportare un nuovo esperimento che avrebbe portato inevitabilmente a un cambiamento profondo del regime socialista in Cecoslovacchia fino probabilmente a rovesciarlo in modo pacifico. Molto lontano poteva portare la riflessione di un ex ministro come Eugen Loebl, già vittima delle purghe: «Qual era stata la principale preoccupazione, per me e per i miei compagni membri del partito? Quante tonnellate di acciaio, carbone e grano bisognava produrre, e quante paia di scarpe e altri beni di consumo? Noi decidevamo quello che doveva esser prodotto e consumato, quanto dovevamo investire, e quanto dovevamo pagare i lavoratori. Mentre eseguivamo il programma di Marx per il socialismo, l'uomo scompariva dal nostro orizzonte: la nostra mente era occupata soltanto dai prodotti e dalle loro interrelazioni. Non chiedevamo mai a nessuno un parere su quello che facevamo, esclusi il Politburo e il governo. Avevamo espropriato i possessori dei mezzi di produzione, secondo quanto Marx aveva pianificato; ma non avevamo espropriato anche il consumatore, e l'intera nazione non era basata forse sull'idea dei diritti del consumatore? Avevamo fatto dei lavoratori la classe dirigente, ma la loro unica funzione consisteva nel raggiungere i traguardi stabiliti da noi».

E forse, per un effetto di imitazione, il fenomeno si sarebbe riproposto anche in altri Stati dell'Europa centro-orientale. Non si deve dimenticare che la Polonia continuava a sopportare (è il caso di usare tale termine nel caso polacco) un regime costretto frequentemente a dialogare con la società o almeno a tenerne presenti le esigenze. Di quel regime la Chiesa cattolica continuava a essere una interlocutrice rispettata, la classe operaia non era molto disponibile ad accettare tutte le decisioni e le parole d'ordine che dal governo e dal partito le pervenivano, gli studenti non erano da meno e nel 1968 si comportarono in modo poco differente da quello dei loro coetanei dell'Occidente tanto da costringere il segretario Gomulka a incontrarli personalmente. Anche la Jugoslavia, paese esterno al blocco, ma tuttavia governato dalla Lega dei comunisti, conobbe nel 1968 forti agitazioni studentesche: forse le difficoltà di Tito (peraltro molto abile nel trattare con il movimento studentesco) non spiacquero a Mosca, ma i dirigenti sovietici dovettero avvertire che pure le agitazioni in Jugoslavia erano un segnale non favorevole al mantenimento dei regimi comunisti.

Insomma, pur essendo vero che gli altri Stati comunisti non conobbero un Sessantotto, non era da considerare impossibile il pericolo di un contagio che agisse contro il modello politico e socio-economico che da circa vent'anni l'Europa centrale aveva importato dall'Urss.

Questo era, pertanto, il contesto nel quale andò a inserirsi la ventata innovatrice che soffiò in Cecoslovacchia negli anni Sessanta e particolarmente nel ; un contesto ostile ad essa che poteva fare presagire la risposta repressiva e militare che il Cremlino e altri governi est-europei vollero darle.

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