Cultura e Spettacoli

Ecco la Spoon river dei poeti massacrati dal comunismo

Con la rivoluzione d'ottobre si apre la caccia all'artista da uccidere o umiliare. Fu una mattanza senza eguali

Ecco la Spoon river dei poeti massacrati dal comunismo

Siamo nel 1938, all'epoca San Pietroburgo si chiamava Leningrado e nella città di Lenin «Kresty» è un nome che blocca il respiro in gola, come un'incudine. La chiamavano «la Perfetta», la «Kresty», la prigione più efficiente del mondo. Nel 1938, in ginocchio, al cospetto di «Kresty», l'unico dio nella desolazione comunista, c'è la «nobildonna della poesia russa», come la onoreranno, dopo morta, sempre troppo tardi. C'è Anna Achmatova. Mendica notizie di suo figlio, Lev Nikolaevic, uno dei tanti razziati per devozione al terrore, senza un perché, dalla risacca dentata della Rivoluzione. Nel 1910, a Parigi, il mondo dell'arte s'inchinava davanti ad Anna Achmatova, alla sua bellezza aristocratica e complessa, impressa da Modigliani. Facevano la coda per dipingere il profilo potente di Anna. «Abbandona la Russia per sempre./ Laverò dalle tue mani il sangue», scrive, prevedendo il regime che avrebbe sterminato i suoi poeti, Anna, nel 1917. A quell'epoca Anna era ancora la sposa di Nikolaj Gumilëv, spavaldo e talentuoso poeta antibolscevico. «Ho ucciso i leoni in Africa, cosa può farmi un manipolo di bolscevichi?», diceva, bello come un Apollo, appena atterrato in Russia, nel 1918. Fu arrestato nel 1921, con la solita accusa di essere un cospiratore e non un artista. Lo fucilarono due settimane dopo l'arresto. Questo capita ai poeti vissuti sotto la Rivoluzione: o muoiono o vedono morire chi amano. «E se mi chiuderanno la bocca tormentata/ con cui grida un popolo di cento milioni...», attacca Anna Achmatova nella sua poesia più alta e più dura, mortifera, Requiem, scritta nel 1940.

Nello stesso anno Marina Cvetaeva scrive da Mosca all'amica Vera, «mi serviva molto poco per essere felice». Marina aveva lasciato la Mamma Russia nel 1922; vi ritorna nel 1939. «La sorella era in un lager, dove scontava la lunga pena inflittale per le sue convinzioni religiose» (così Serena Vitale, che per Adelphi ha curato il necessario epistolario della poetessa), lei si arrangia come può. Marina dura due anni nel suo paese. Il 31 agosto del 1941 la ammiriamo appesa a una corda, impiccata, nella casa dov'era andata a vivere, alla periferia del mondo. «Indossava, sul vestito, un grembiale». Nelle ultime lettere supplica di prendersi cura del figlio, Mur, «amatelo lo merita. E me perdonatemi: non ce l'ho fatta». Quattro giorni prima pregava «di essere assunta come lavapiatti». Così muore, nella Russia sovietica, un grande poeta. Eppure, Marina Cvetaeva credeva che alla Rivoluzione politica seguisse quella estetica, che dalla nascita di un nuovo governo scaturisse la rinascita delle arti. Credeva nella Rivoluzione e nel suo profeta, Vladimir Majakovskij, «arcangelo dal passo pesante», «cantore di miracoli di piazza», «schianto di ciottoli», così lo cantava.

Anche Majakovskij, però, l'Omero del nuovo mondo leninista, alto, massiccio, dionisiaco e narciso, farà la stessa fine di Marina. Il poeta che urlò «la vita di Lenin non ha fine», il poeta «dileggiato dall'odierna generazione/ come un lungo/ aneddoto scabroso» che cantò La nuvola in calzoni e l'impeto rivoluzionario si finì il 14 aprile del 1930, con un colpo di pistola nel petto, deluso dal vomito rivoluzionario («io, pulitore di fogne e acquaiolo/ della rivoluzione», si tratteggia nell'ultimo, lucido, sinistro poema, A piena voce, «frugando/ nell'odierna/ merda impietrita/ studiando le tenebre dei nostri giorni»), ossessionato da spie, delatori, compagni traditori. «Il tuo sparo fu simile a un Etna/ in un pianoro di codardi e di codarde»: in questo modo Boris Pasternak, in un distico tra i tremendi e mirabili della letteratura del Novecento, sigilla la morte d'un poeta, Vladimir Majakovskij. Qualche anno prima, a dire il vero, nella notte del 27 dicembre 1925, con la cinghia della valigia, in una stanza d'albergo, si era impiccato Sergej Esenin, il poeta contadino, il poeta «teppista», Casanova in salsa russa (prima fu il toy boy di Isadora Duncan con cui vagò per gli Stati Uniti, poi, tornato in patria, impalmò la nipote di Lev Tolstoj), che avrebbe voluto «essere una gialla vela/ per quel paese verso cui navighiamo». Lui si uccise, il figlio Jurij, arrestato nel 1937, morì nei Gulag.

Pasternak, invece, il più grande poeta russo del secolo, non morì. Fu stretto ai margini della vita letteraria russa, costretto ad assistere alla morte degli amici, di una formidabile generazione di poeti, una covata che non ha eguali, quanto a risultati lirici, nel mondo occidentale. E che fu sistematicamente frustrata e sterminata, prima da Lenin poi da Stalin, l'assassino della poesia. «Ora so che ogni volta che non saprò come andare avanti potrò tornare a Zivago e imparare da lui la più grande lezione di vita», scrive Giangiacomo Feltrinelli, il 5 settembre del 1958, da Milano, a Boris Pasternak. Si riferiva, ovviamente, al Dottor Zivago, che Feltrinelli aveva pubblicato l'anno prima, nel 1957, in anteprima mondiale, vincendo la cortina di ferro dell'idiozia russa, dell'idolatria al regime. Non la pensava come lui l'intellighenzia moscovita che, in seguito all'assegnazione del Premio Nobel, aizzò una violenta sassaiola retorica contro «la degradazione politica e morale di Pasternak» e il suo «tradimento nei confronti del popolo sovietico». L'Unione degli scrittori di Mosca approvò all'unanimità la richiesta al governo russo di privare Pasternak della cittadinanza sovietica. «Non mi aspetto giustizia da voi. Mi potete fucilare o deportare, potete fare quello che volete». Pasternak non fuggì. Nel 1935, quando si ventilava il suo arresto, Stalin lo fa prelevare da una casa di cura e lo spedisce, leccornia lirica della madre Russia, per non alimentare bisbigli, a Parigi, al «Congresso per la difesa della cultura». In Francia, Pasternak incontra Marina Cvetaeva e il folto numero di poeti russi esiliati dalla Rivoluzione, Vladislav Chodasevic (idolatrato da Vladimir Nabokov), Zinaida Gippius, ma anche Evgenij Zamjatin. Insieme a lui, a rappresentare l'Unione sovietica, c'è Isaak Babel', lo straordinario autore de L'armata a cavallo. Qualche anno dopo Babel' viene arrestato con l'accusa di essere una spia al soldo dei francesi e di passare informazioni ad André Malraux. Viene fucilato il 27 gennaio del 1940. Nel 1954, dopo il riesame del processo, la Corte suprema russa decise «di annullare la condanna nei confronti di Isaak Babel' e di chiudere il caso». Lo scrittore era già morto e decomposto, ma questa non è che una parentesi ironica nella sporca vicenda.

Tuttavia, è Osip Mandel'stam il simbolo del poeta martirizzato dal regime comunista. Frollato in prigione nel 1938, il poeta che aveva descritto Stalin come «il montanaro del Cremlino» con le «dure dita grasse come vermi» che «forgia un decreto dopo l'altro come ferri di cavallo» e per cui «ogni morte è una fragola», morì nei Gulag e le sue poesie, evirate dal regime, impubblicabili, si sono salvate grazie alla moglie, Nadezda, che le mandava a memoria, con una devozione più ostinata dei lacchè sovietici, i baciastivali dei potenti. Perché un poeta fragile e sostanzialmente alieno alla politica come Mandel'stam dava tanto fastidio al potere impareggiabile di Stalin? «Un poeta si mette nei guai non tanto per le sue idee politiche, quanto per la sua superiorità linguistica e, implicitamente, psicologica», ci spiega Iosif Brodskij, il «delfino» di Anna Achmatova, arrestato per «parassitismo sociale» negli anni Sessanta, quelli che noi ricordiamo per i Beatles, il boom e La dolce vita, torturato (internato in ospedale psichiatrico, «viene svegliato nel cuore della notte, immerso in una vasca gelida, avvolto in lenzuola bagnate e messo accanto a un calorifero così che la tela gli entri nella pelle quando si asciuga», così Cynthia L. Haven), finalmente in esilio dalla Russia, dal 1972. I poeti, ci dice Brodskij, non mettono in crisi un regime, «mettono in discussione tutto l'ordine esistenziale». Per questo vengono massacrati e uccisi. Ogni forma di potere culla in sé il progetto di vincere la morte, perciò ammazza il poeta, che sa superare la morte. «Non dovete preoccuparvi di nulla. La morte non c'è. La morte non è cosa nostra», fa dire Pasternak al suo Zivago; «no, non penso che le cose finiscano con la morte», gli fa eco Brodskij, nell'Eden americano, restando aggrappato alla lingua russa, la sua sola patria.

I regimi declinano e muoiono, il poeta, decapitato dalla Storia, resta invitto.

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