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Esce "Judy", il film con cui Renée Zellweger prenota l'Oscar

Il biopic su Judy Garland, un po' didascalico, va visto per l'attrice protagonista, eccelsa nel mettere in scena le contraddizioni e i tormenti della donna dietro l'icona.

Esce "Judy", il film con cui Renée Zellweger prenota l'Oscar

"Judy", il film tratto dalla pièce teatrale "End of the Rainbow" di Peter Quilter, è un biopic che come altri sceglie di concentrarsi su un periodo limitato della vita del personaggio protagonista. Nel caso di Judy Garland, stiamo parlando del suo ultimo tragico anno di vita.
Siamo nel 1969. Judy Garland (Renée Zellweger) è al quarto divorzio, non ha più la voce di una volta e versa in condizioni economiche disastrose. E' ritenuta inaffidabile professionalmente e quindi non riesce ad avere contratti, mentre le banche non le fanno credito perché è sola, con due figli a carico. E' per amore di questi ultimi che accetta di tenere dei concerti a Londra, dove incontra Mickey Deans (Finn Wittrock), suo futuro quinto marito, e trova affetto in una coppia di fan (Andy Nyman e Daniel Cerquiera). Ad aiutarla a rilanciare un’immagine e una carriera ormai irrimediabilmente compromesse, ha un'assistente (Jessie Buckley) che la incoraggia e cerca di tenerne a bada gli eccessi.
"Judy" racconta con rispetto e delicatezza il dramma esistenziale di una stella in declino e da anni ostaggio di depressione e alcolismo, demoni che, assieme all'abuso di farmaci, la ridussero al collasso fisico, mentale e psicologico.
La linea narrativa del film compie alcuni salti temporali, avanti e indietro, tra il '39 (anno de "Il mago di Oz") e il '69 (epoca dell’ultimo tour inglese), mostrando in parallelo l'inizio e la fine di un percorso che, dietro al glamour, ebbe un lauto costo fin da subito. Judy, infatti, fu consacrata dalla MGM come bambina prodigio divenendo un'icona mondiale, ma fu anche introdotta all’uso di anfetamine e sonniferi proprio da chi ne curava gli interessi lavorativi, finendo col non uscire mai dalla dipendenza da tali sostanze.
Il boss della casa di produzione, Louis B. Mayer (Richard Cordery), un padre padrone col vizio dell'abuso sessuale velato, sapeva bene come rendere ancora più fragile quella che era un'insicura ragazzina originaria del Michigan. Nel film si racconta che i soli moti di ribellione da parte di quest'ultima furono cose come addentare un hamburger e fare un tuffo in piscina. Perennemente a dieta e con torte finte per inscenare fantastici compleanni di cartapesta, Judy crebbe protagonista di un incubo che era venduto come sogno. Hollywood è descritta nel film come una macchina delle celebrità che finisce per fagocitare le sue stesse creature.
La spirale distruttiva che copre l'arco narrativo comprende non solo scorci di traumi passati, ma anche esibizioni in cui l'artista è sul palco in stato alterato di coscienza e ha scontri verbali con la platea. A una figura così, sempre sull'orlo del baratro, solo un'interprete di disarmante bravura come la Zellweger poteva restituire tanta autenticità. Difficile che dopo una tale prova attoriale qualcuno possa rubarle l'Oscar: l'attrice si cimenta personalmente, con un'immedesimazione totale, nei diversi numeri musicali incentrati su canzoni diventate celebri. Ora con dolente malinconia nello sguardo e gestualità nervosa, ora con guizzi di simpatia irresistibile e debordante, riesce a restituire le dicotomie di una personalità incontenibile. Il pubblico, che a più riprese è raffigurato come impietoso e irriconoscente, si redime nel finale, quando, in una scena un po' retorica ma davvero commovente, sembra finalmente abbracciare e comprendere la solitudine di un'anima lacerata.


"Judy" è un film che non brilla per originalità, ma che sa tenersi lontano da sdolcinatezza e patetismo anche ripercorrendo la stagione più amara e crepuscolare di una diva perennemente in cerca d'amore.

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