Cultura e Spettacoli

"In fabbriche dismesse o negli atelier tutta l'arte è effimera"

Muralista ma non moralista, l'autore contesta la street art come toppa alle «magagne urbane»

"In fabbriche dismesse o negli atelier tutta l'arte è effimera"

«Storico esponente della scena italiana dell'arte urbana, laureato in disegno Industriale presso il Politecnico di Milano, è considerato uno dei primi e maggiori esponenti del post-graffitismo astratto a livello nazionale ed europeo». Copiare Wikipedia è dozzinale, lo fanno tutti, virgolettare la gloriosa Treccani è molto più elegante e poi mi serve per mostrare quanto gli street artist siano ormai inseriti nella cultura ufficiale. Guido Bisagni, in arte 108, è un piemontese cortese e un muralista non moralista, caso abbastanza raro in un ambiente zuppo di ideologia (ideologia da centro sociale, ovvio). Altrettanto raro il suo rapporto con l'astrazione storica (Kandinsky, Malevic, Jean Arp), un buon vaccino contro la figurazione a base di uccelli, serpenti e topi che avanza, sorta di peste animale, sui muri delle nostre incolpevoli città.

La Treccani scrive che 108 è un «nome de-personalizzante derivato da una combinazione di interessi nelle filosofie orientali e nella geometria». Dietro il tuo nome d'arte c'è davvero tutto questo?

«Direi di sì. Per la scelta del numero mi sarebbe piaciuto usare il 3, numero sacro per tutte le culture indoeuropee, ma era troppo semplice, così optai per un multiplo, 108. Diciamo che per me era ed è importante mantenere questo rapporto tra arte e spiritualità fin dal nome».

Io ti avrei detto influenzato da un neo-paganesimo di tipo occidentale, non orientale: ho visto una tua foto a Stonehenge durante il solstizio.

«Sono affascinato, direi quasi morbosamente, dal folclore e da ciò che rientra nell'antropologia culturale. Da sempre, fin da quando mia nonna, cattolicissima, mi raccontava di aver visto le fate in cima a una collina sui colli tortonesi. A volte mi infastidisce che qualcuno vada apposta in Oriente, che una strana forma di razionalismo ci abbia portato a pensare che certe cose esistano solo là. È vero, per il solstizio d'estate quest'anno sono andato a Stonehenge, però vado anche al santuario di Oropa e a cercare le pietre coppellate, che nessuno conosce più, sull'Appennino Ligure o in Val Susa. Detto con un po' di imbarazzo, il mio approccio all'arte è sicuramente di tipo sciamanico».

Altra questione lessicale. Come ti posso definire con precisione: muralista, street artist o cosa?

«Da un lato non mi piace etichettarmi, dall'altro serve una definizione per semplificare le cose. Nel 2017 ho dipinto molto di più su tela o su carta di quanto non faccia su muro e comunque la pittura è la forma d'arte che mi riguarda maggiormente, quindi se proprio devo mi definisco pittore. Penso che i graffiti (sia i newyorkesi che quelli preistorici) siano molto importanti, ma più che a Diego Rivera o a Keith Haring mi sento vicino ad artisti come Sironi o Mirò che realizzarono lavori murali con una ricerca che andava oltre la superficie usata».

Di solito chiedo se nell'epoca della globalizzazione sia ancora possibile identificare un'arte contemporanea italiana. Nella street art gli scambi internazionali sono particolarmente fitti e dunque l'esistenza di uno stile nazionale è ancora più improbabile: o invece esiste una street art riconoscibile come italiana, o americana, o inglese?

«La nascita di questa ondata di street art coincise con l'esplosione di internet. Alla fine degli anni Novanta eravamo poche decine in tutta Europa e grazie alle e-mail riuscivamo a scambiarci piccole foto. Questo ha fatto sì che fosse da subito una cosa internazionale. Forse anche perché sono piemontese, da sempre ho avuto più contatti in Francia che in Italia. Oggi restano alcune peculiarità locali, anche se meno definite. Si vede chiaramente se uno viene dal Sud America, e penso di poter ancora distinguere un argentino da un brasiliano. Fino a qualche anno fa era chiarissima la differenza tra uno spagnolo e un inglese, ma con i continui scambi e con Instagram penso che le differenze si stiano riducendo».

Pittori e scultori hanno sempre inseguito l'immortalità. Anche i muralisti? Come vivi il fatto che molti tuoi lavori sono esposti alle intemperie o realizzati su edifici destinati all'abbattimento?

«Quando realizzo street art per me stesso cerco di documentarla, fotograficamente, nel miglior modo possibile. Però quando il lavoro è finito diventa parte dell'ambiente e non è più di mia proprietà. Un po' diverso se si tratta di una commissione. In quel caso mi sento responsabile della sua durata, anche se all'aperto ci sono molti problemi. Quest'anno ho fatto un esperimento con le piastrelle, per rendere i colori più durevoli. Comunque credo che sia effimera gran parte dell'arte contemporanea, non solo la street art».

Dei tuoi lavori, quale vorresti eternare? Museificandolo? Oppure, come Blu, sei contrario a custodire nei musei ciò che è nato in strada?

«Non sono contrario a museificare i miei lavori, ma l'opera da eternare vorrei farla appositamente, magari una grossa scultura pesante».

Un muralista può vivere soltanto di muri o deve per forza dipingere anche quadri vendibili?

«Vivere facendo il muralista duro e puro è molto difficile se uno non ha una rendita sua o di famiglia. Inoltre, anche se non è facile da credere, ho sempre avuto più restrizioni partecipando a eventi pubblici che a mostre in gallerie private. Quindi di festival ne faccio sempre di meno, più che altro quando mi interessa viaggiare. Preferisco da una parte la sperimentazione in totale libertà all'interno di ex fabbriche che stanno per essere demolite: molte volte è qui che trovo nuove forme e idee. E dall'altra parte il lavoro vero e proprio, quello del pittore tra studio e gallerie, un ambiente che mi piace anche perché, se posso essere un pochino polemico, mi permette di confrontarmi con secoli di storia dell'arte, non solo con gente che cerca di inventarsi una carriera».

Lo scrittore sulle cui copertine, con una tua immagine, vorresti essere?

«Qualche anno fa lessi l'autobiografia di Jung e fu un evento. Mi sono ritrovato su tantissime cose, mi ha aiutato a far luce sui miei lavori. Quindi comparire sulla copertina di un suo libro sarebbe per me un traguardo importante».

L'autore che vorresti scrivesse un testo per un tuo catalogo?

«L'anno scorso ho letto Lo splendore del nero di Alain Badiou che sembrava proprio il libro che aspettavo di leggere. Sceglierei lui per il testo potenzialmente perfetto».

La città (italiana o non italiana) in cui oggi vorresti avere uno studio?

«Sono appena tornato da Venezia e anche se mi sembra una risposta scontata ho avuto l'ennesima conferma che quella è la città in cui mi sento meglio. Specialmente d'autunno, specialmente la sera e specialmente nelle zone meno turistiche. L'unica cosa di cui ho paura è l'influenza che una città così importante potrebbe avere sul mio lavoro».

Chiedo sempre al mio interlocutore se è per «l'art pour l'art» o se l'arte deve prendere parte. Tu polemizzasti sull'idea di street art come strumento di riqualificazione urbana...

«Penso che l'arte debba essere prima di tutto arte, anche per non sminuirsi. Sono un po' insofferente agli slogan: preferisco che certe cose siano meno esplicite. Quando l'arte viene messa al servizio della politica o del commercio ho sempre grandi perplessità. Non ho mai pensato che la street art possa rappresentare una reale riqualificazione urbana, prima di tutto perché è una cosa imposta e non tutti hanno gli stessi gusti. Inoltre certi eventi vengono organizzati in quartieri in cui mancano le cose più elementari, mezzi pubblici, parchi, panchine...».

Quindi viene usata per un'operazione cosmetica, come trucco urbano...

«Secondo me è proprio quello. Mi è capitato moltissime volte di dover dipingere su intonaci che si sarebbero staccati da lì a qualche giorno. Si voleva evitare di chiamare un'impresa che rifacesse l'intonaco.

In questi casi la cultura è solo una scusa per coprire magagne».

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