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La falsa lezione di chi dice che la democrazia è falsa

Lo storico Emilio Gentile sembra scoprire solo ora i vizi del sistema di governo preferito in Occidente

La falsa lezione di chi dice che la democrazia è falsa

«Storico di fama internazionale», Emilio Gentile si cimenta con la political theory, nella collana Idola dell'editore Laterza nata per smascherare i falsi ideologici di ogni tipo (non è vero che in Italia paghiamo troppe tasse, che dobbiamo restituire fiducia ai mercati, che senza proprietà non c'è libertà, che il matrimonio omosessuale è contro natura, che l'Islam è una minaccia etc.). Il falso che Gentile parte lancia in resta per smascherare è che In democrazia il popolo è sempre sovrano (così s'intitola il suo saggio, con un Falso! stampato sopra, pagg. 170, euro 10).

Sarà anche vero che si tratta di un falso, ma tutto dipende dalle definizioni che si danno di democrazia, popolo, sovranità, come potrebbe obiettare Sancho Panza, memore della critica feroce che il democratico Rousseau rivolgeva alla perfida Albione: «Il popolo inglese ritiene di esser libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l'elezione dei membri del parlamento. Appena questi sono eletti, esso è schiavo, non è nulla». Per Gentile, in verità, è falsa quella che lui chiama la «democrazia recitativa», un'espressione da cui si ripromette, forse, un posto in quella secolare storia delle forme di governo che da Erodoto giunge a Montesquieu e oltre. «Oggi - scrive lo storico/filosofo politico sembra che l'ombra dell'ipocrisia democratica si vada estendendo con la rappresentanza scenografica di una democrazia recitativa, che ha per palcoscenico lo Stato, come attori protagonisti i governanti, e come comparsa occasionale il popolo sovrano, che entra sul palco solo per la scena delle elezioni mentre per il resto del tempo assiste allo spettacolo come pubblico». Sennonché cosa c'azzecca la recita, per parlare come un quasi conterraneo di Gentile? A teatro compare Alfio ammazza per finta compare Turiddu, ma a ogni elezione politica il popolo - sovrano solo nel momento in cui viene chiamato alle urne - non sostituisce Prodi a Berlusconi o viceversa per finta, e non importa l'indice di partecipazione o la competenza dei votanti.

In sostanza, Gentile non dice assolutamente nulla di nuovo rispetto alle severe diagnosi che della democrazia dei contemporanei avevano già fatto sociologi e scienziati politici come S.N. Eisenstadt (Paradossi della democrazia, Il Mulino) e, soprattutto, C. Crouch (Postdemocrazia, Laterza). Il degrado della comunicazione politica di massa, la crescente personalizzazione della politica elettorale, la concentrazione del «potere politico nelle mani di una minoranza di governanti, legati a potentati economici e finanziari, quando non sono gli stessi esponenti di questi potentati a diventare governanti grazie a un elettorato sul quale ha avuto effetto» una «martellante campagna pubblicitaria», le sfide della globalizzazione economica e culturale, i nuovi antagonismi culturali, etnici, nazionalisti, religiosi, il declino del Welfare State e quella che un tempo si chiamava la «crisi fiscale dello Stato»: sono fenomeni fritti e rifritti in tutte le salse e non è certo l'invenzione della «democrazia recitativa» a darne una definitiva sistemazione concettuale.

Il problema diventa serio quando si tenta (almeno) di individuare non le cause ma i mutamenti istituzionali che hanno reso quei fenomeni comuni dal più al meno - a tutti i Paesi delle due rive dell'Atlantico. Ma su questo piano il demistificatore del nuovo falso si chiude in un poco dignitoso silenzio. Non solo non viene mai fuori il nome di Giuseppe Maranini, un lucido analista della partitocrazia e della sua genesi, ma neppure si accenna a storici come Renzo De Felice o Rosario Romeo i quali avevano meditato sulla crisi della democrazia e sul suo nesso con la crisi della nazione, una tematica oggi al centro di autori come Pierre Manent, Yakov M. Rabkin, Roger Scruton. Inoltre meraviglia non poco che nell'analisi del berlusconismo lo storico non accenni neppure alle ragioni reali del suo successo ma si limiti a far suo il giudizio dell'Economist (aprile 2001) sull'uomo «inadatto a governare l'Italia» o che metta alla gogna quanti vorrebbero dare maggior potere all'Esecutivo, dimenticando che la Costituzione è stata criticata per mezzo secolo per aver riguardato il capo del governo come un primus inter pares alla mercé di un legislativo pletorico, bicefalo e (giacobinamente) onnipotente.

Si ha l'impressione, in realtà, che Gentile abbia appena sfiorato l'universo liberale. Parlando della democrazia greca, a esempio, la definisce una «democrazia diretta», ma guastata da un demos che non comprendeva donne, schiavi e meteci, senza dire che, per i moderni (Benjamin Constant docet), il suo peccato di origine stava piuttosto nella mancanza di limiti alle competenze del popolo sovrano.

In un'altra pagina, scrive che Tocqueville fu affascinato dall'esperimento democratico americano in cui il popolo «è la causa e il fine di ogni cosa: tutto esce da lui e tutto finisce in lui», ignorando che ad affascinare Tocqueville non era il popolo che «regna nel mondo politico americano come Iddio regna dell'universo» ma il fatto che «I repubblicani negli Stati Uniti apprezzano i costumi, rispettano le credenze religiose, riconoscono i diritti. Essi professano l'opinione che un popolo deve essere morale, religioso e moderato in proporzione alla sua libertà. Ciò che si chiama repubblica negli Stati Uniti è il regno tranquillo della maggioranza. (...) Ma la maggioranza, di per se stessa, non è onnipotente. Al di sopra di essa, nel campo morale, si trovano l'umanità, la giustizia e la ragione; nel campo politico, i diritti acquisiti».

Ancora una volta, i limiti! Forse all'origine della crisi profonda della democrazia c'è una political culture che scarica sullo Stato ogni tipo di bisogni, ogni disagio individuale e collettivo, in linea con l'evergreen «piove, governo ladro!».

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