Cultura e Spettacoli

Il film che accusa Hollywood: ci sono troppi attori virtuali

"The Congress", storia di un'attrice che diventa un avatar, denuncia l'uso eccessivo delle nuove tecnologie digitali

Robin Wright interpreta un'attrice che accetta  di farsi digitalizzare
Robin Wright interpreta un'attrice che accetta di farsi digitalizzare

Mentre James Cameron prepara Avatar 2 e 3, con una nuova tecnologia che integra un maggior numero di elementi digitali, in un ambiente interattivo, da Hollywood arrivano segnali di profonda insofferenza per questo patto col diavolo, l'alias digitale. Il tema del «doppio», identificato con le potenze del male che operano nell'uomo dalla letteratura romantica occidentale, si ripropone con forza intanto che ci emozioniamo per creature in supporto 4K, originate dal design computerizzato. Forse la tigre digitalizzata di Vita di Pi di Ang Lee è meno affascinante d'una tigre vera? E una star come Scarlett Johannson seduce, nel film di Spike Jonze Her, rimanendo dietro le quinte d'una sua presenza digitale: presta la voce al sistema operativo d'un computer chiamato Samantha. La recitazione incorporea, dunque, viene sempre più sperimentata, anche grazie alla tecnica del «motion capture»: chi non ricorda il Gollum del Signore degli Anelli, ben più famoso, da hobbit pixellato, dell'attore Andy Serkis, che gli regalava movenze e sembiante restando ignoto? In fin dei conti, è dai tempi di E.T. che corriamo dietro alle ombre più simpatiche degli attori autentici, capricciosi, costosi, perituri. E in questa breccia s'è infilata di corsa, ponendo un problema etico, l'industria cinematografica, attratta dalle meraviglie della tecnologia. Da cinéfilo vecchio stampo, però, Quentin Tarantino ha lanciato un grido d'allarme a Cannes. «Non importa su che supporto un film sia stato girato: il cinema come lo conosco io è finito. Il digitale è la morte del cinema», ha detto l'autore, aggiungendo: «So che la battaglia è persa, ma io spero che nelle prossime generazioni torni un po' di romanticismo». Intanto, il 12 arriva giustappunto The Congress del regista israeliano Ari Folman, lo stesso di Valzer con Bashir, e mette il dito nella piaga dell'intelligenza artificiale, usata per soppiantare gli attori in carne e ossa. Se è tutto nella nostra testa e basta il 3D per farlo apparire più vero del vero, ecco che l'attrice Robin Wright, qui protagonista nel ruolo di se stessa, interprete 44enne in sempiterna cerca di ruoli, accetta di farsi scannerizzare. Cederà ai fantomatici studi Miramount la propria identità, lasciandosi digitalizzare per diventare completamente virtuale: il suo alias reciterà per sempre, a piacimento dei produttori, ma lei smetterà. A convincerla è il suo agente Al (Harvey Keitel), che cinicamente le sussurra: «Il cinema? È roba vecchia». Il bello è che la Wright, bravissima in Forrest Gump e, adesso, in House of Cards, rimane giovane grazie alla riproduzione digitale: potrà diventare anche un cartone alla Betty Boop, esistendo a un livello differente, ma dovrà smaterializzarsi. Mescolando live-action e dramma fantascientifico, Ari Folman s'ispira a The Futurological Congress (1971), romanzo breve del polacco Stanislaw Lem, considerato, insieme a Philip K.Dick, il più profetico scrittore di fantascienza: è al suo romanzo Solaris che si rifà Andrej Tarkowskij nell'omonimo film (1972).

«The Congress è prima di tutto un fantasy fantastico, ma anche una richiesta d'aiuto e un grido di nostalgia per il vecchio cinema che conosciamo e amiamo», spiega Folman, che nella seconda parte del suo lavoro sviluppa l'idea-base del «doppelgaenger» digitale mandandolo, vent'anni dopo la sua creazione, in una specie di Disneyland del futuro, detta «Abrahama». Dove immagini di Hitler, Marilyn Monroe e Michael Jackson vivono da persone digitali, mentre l'alias di Robin Wright si aggira smarrita su sfondi coloratissimi, come creati dopo aver preso l'acido lisergico. C'è persino Clint Eastwood, un Picasso cubista e Tom Cruise...

Ovvio che un film così corrosivo nei confronti dell'attuale sperimentazione digitale hollywoodiana non potesse figurare in competizione l'anno scorso a Cannes, dove comunque fu il film d'apertura. Nell'era post-Avatar, insomma, scocca l'ora della riflessione: come sopravvivere al CGI, al 3D e a quel complesso processo sociale che gli osservatori chiamano «commodification», coniugando il concetto di comodità (si fa a meno degli umani dispendiosi) e di modificazione del reale?

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