Cultura e Spettacoli

Per fortuna in letteratura "uno" non vale "uno"

La risposta al filologo Lorenzo Tomasin, che ha sollevato dubbi in merito alla qualità dei romanzi italiani contemporanei: qui la reazione di Giuseppe Conte

Per fortuna in letteratura "uno" non vale "uno"

Per anni ho diretto una collana di poesia e ho avuto il ruolo di consulente per un grande gruppo editoriale: ho svolto il lavoro con sin troppa umiltà e dedizione alla buona causa della letteratura, ma ho imparato anche a tener conto di esigenze dell'editoria che sono ineludibili. È chiaro, come afferma il filologo Lorenzo Tomasin, che l'alfabetizzazione di massa ha messo tutti in grado di scrivere. Ma è il declino del ruolo sociale, spirituale, fondante della letteratura che ha fatto credere a qualunque alfabetizzato di poter scrivere un romanzo, in linea con il principio secondo cui uno vale uno che ha prodotto gli sconquassi politici cui stiamo assistendo. Ed è la stessa ragione che spiega il sopravvento preso dal marketing, innocente sinché non si crede valore assoluto e non crea mostri come la coppia Fedez-Ferragni: che qualunque premio letterario, diciamolo senza ipocrisia, sarebbe felice diospitare.

L' autofiction è la proiezione libresca del selfie? Fischieranno le orecchie ai sopravvalutatissimi Francesco Piccolo e Walter Siti. Il narratore medio si ferma all'hic et nunc: io come voce narrante, tempo verbale presente e via così per pagine e pagine dove non accade nulla? Certo, gli autori italiani, mediamente, hanno poco da raccontare: poco uso di mondo, poche esperienze, pochi viaggi, stanno volentieri nelle loro borgate, quelle reali, o quelle dell'anima. Le scuole di scrittura hanno troppo spesso creato zombie e cloni, tutti arrogantemente eguali: una bella sequenza allitterante, Baricco, Bajani, Balzano... Non sono affatto d'accordo con la svalutazione del romanzo storico «di infausta memoria»: avrà coniato l'espressione il fortunato cantautore Vecchioni? Sarà di infausta memoria anche Manzoni? E non sono d'accordo nel giudicare «miasmi» quelli della letteratura di genere. Anch'io avevo diffidenze, ma ho capito presto che bisognava fare i conti con i generi, come fa Soldati con la fantascienza nello Smeraldo, come fa Eco con il thriller nel Nome della rosa. Lo stesso Camilleri, a una lettura attenta, mi sembra più apprezzabile di tanti autori sedicenti letterari.

Il fatto è che critici e filologi possono fare senza volerlo molto male all'immaginazione creativa, quando insistono nell'idea che l'unica ricerca che conta nel romanzo è quella linguistica: che l'unica linea è quella di Gadda (o addirittura di Pizzuto e Manganelli). Dire che la ricerca linguistica è essenziale, è una tautologia. Come dire che è essenziale lo stile, di cui non conosco definizione migliore di quella di Damaso Alonso: «Tutto quello che individualizza un ente letterario». Ma i personaggi, la trama? Dove è scritto che siano morte scorie del passato? Ogni epoca deve avere i suoi nuovi eroi e le sue nuove eroine. Il romanzo, attraverso personaggi e trama, è la migliore forma di educazione al fato. Così pensavo, e non al Campiello, mentre scrivevo Sesso e apocalisse a Istanbul. Ma forse l'uomo contemporaneo occidentale sa di non avere più un destino.

E quello è un altro discorso.

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