Cultura e Spettacoli

La foto di Ai Weiwei? Pura autopromozione

Il cinese nei panni del bambino siriano morto in spiaggia: non era il caso

La foto di Ai Weiwei? Pura autopromozione

Ai Weiwei è l'artista più sopravvalutato di tutto il contemporaneo. Ha saputo usare al meglio le sue vicende di natura fiscale con il governo cinese per costruirsi una reputazione da perseguitato. La mostra personale di alcuni mesi fa presso la Royal Academy di Londra risultava un cumulo di gigantesche installazioni taroccate, i cui rimandi ad altri colleghi erano tanto evidenti quanto irritanti. Eppure piace tanto a un certo mondo dell'arte, ai curatori snob, ai direttori di museo.

Fintantoché si limita a rimuginare sulla propria situazione o scopiazzare i minimalisti, pazienza lo sopportiamo; ma diventa quasi impossibile quando, con cinismo, specula sulle tragedie per aumentare la sua fama planetaria.

Giorni fa Ai Weiwei ha diffuso una foto in bianco e nero eseguita dall'indiano Rohit Chawla, riproponendo l'immagine del bambino siriano morto sulla spiaggia di Bodrum in Turchia, simbolo del dramma dei profughi. Allo scatto commovente del piccolo, l'artista sostituisce quella del proprio corpo grasso e sgraziato, la faccia ben in vista tanto per non creare equivoci sul suo protagonismo: e giù tutti a sdilinquirsi sull'importanza di questo atto di denuncia, che invece è una performance astuta, studiata a tavolino, senza alcun rispetto né per la morte né per l'infanzia.

Non contento, il cinese ha annunciato la sua imminente impresa: utilizzerà 14 mila giubbotti salvagente abbandonati dai rifugiati giunti sull'isola greca di Lesbo. Plastiche di pessima qualità - precisa - che poi esporrà nel tempio dell'arte contemporanea, Berlino. «Obiettivo dell'opera ha dichiarato Ai Weiwei- è di mobilitare la comunità internazionale contro il crimine che si perpetua ogni giorno da parte dei trafficanti di esseri umani». Non importa che cosa sarà effettivamente questo lavoro, se avrà un contenuto estetico oppure si soffermerà sul consueto sensazionalismo. Ciò che interessa è che se ne parli come di un evento mediatico, all'unico scopo di gettare qualche sasso nello stagno mezzo addormentato dell'arte di oggi. Come per altri suoi colleghi, l'opera si riduce a un simulacro, anzi non ci fosse sarebbe anche meglio. Ai Weiwei, che continua ad autodefinirsi un dissidente, non fa altro che applicare le regole della comunicazione, senza porsi alcun limite di opportunità. Sennò di lui, al di là della cronaca spicciola, non parlerebbe più nessuno.

Diversi sono convinti che solo all'arte sia rimasta la facoltà di «far politica» attraverso le immagini. Se così fosse davvero, ci sarebbe da arrabbiarsi anche di più. Perché le forme estetiche si misurano con il valore del simbolo e della metafora: sono grida mute, dicono e non dicono, chiedono all'osservatore di farsi un'idea che solo suggeriscono, non «spiattellano» speculando sulle tragedie. Senza contare il conformismo di queste stesse immagini. La questione dei profughi, ad esempio, non viene neanche lontanamente equiparata a quella della minaccia costante che è costretta a subire ogni giorno la civiltà occidentale. Nessuno che alzi la voce contro le barbarie, nessuno di questi artisti che prenda una posizione forte nei confronti del terrorismo islamista. Dietro questa «lacuna» si nasconde la paura. L'arte avrebbe bisogno invece, oggi più che mai, di un no compatto a chi attenta la libertà e la democrazia.

Altro che l'opportunismo di Ai Weiwei.

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