Cultura e Spettacoli

"La fragilità ci fa paura ma ci dà la forza per affrontare la vita"

Lo psichiatra raccoglie tre saggi sulla follia: "Quella femminile è più dolce. E mi ha ispirato"

"La fragilità ci fa paura ma ci dà la forza per affrontare la vita"

Eugenio Borgna è lo psichiatra di Novara che parla di Rilke, Leopardi e Emily Dickinson. «Sono i miei tre punti di riferimento in poesia, continuo a leggerli, anno dopo anno». Nel suo universo di medico risuonano i versi, le parole della mistica e della filosofia. Ci sono Kafka e Trakl, Simone Weil e Teresa d'Avila, Sant'Agostino e Cristina Campo. Le parole che ci salvano è il titolo di una nuova raccolta di tre saggi scritti da Borgna negli ultimi anni (Einaudi, pagg. 238, euro 14); quello che li lega è un filo conduttore paradossalmente fortissimo: la fragilità degli esseri umani.

Professor Borgna, che cosa è la fragilità di cui parla?

"Ci sono fragilità che si vedono, e altre che non si vedono. Alcune sono conseguenze di sofferenze, angosce, tristezze, lacerazioni dell'anima".

E che cosa comportano?

"Alcune implicano una condizione psicologica di tale insicurezza da rompersi di fronte alle pressioni, alle parole o ai gesti degli altri. Le parole degli altri possono essere scale che si aprono per la nostra salvezza, oppure abissi che ci inghiottono".

La timidezza è sorella della fragilità?

"Senza dubbio. Ogni esperienza emozionale è ricca di contenuti umani, affettivi e psicologici. Siamo sensibili soprattutto a quello che è intorno a noi. Ecco la nostra scomponibilità".

Che cosa significa?

"Siamo fragili perché rischiamo di scomporci, di perdere la solidità della nostra vita psichica: quella che ci abitua a vivere attraversando il male di vivere senza incertezze".

C'è un pregiudizio verso la fragilità?

"Sì, perché oggi si ritiene che la vita si realizzi solo se siamo forti, coraggiosi e non ci preoccupiamo dei sentimenti e delle emozioni altrui. Crediamo che il nostro io sia il protagonista esclusivo della nostra vita".

Per chi è fragile è diverso?

"Nella fragilità siamo portati a sentire e vivere i sentimenti degli altri. È essere in un dialogo continuo con gli altri".

Quindi è un valore?

"È essere coscienti dei propri limiti e sapere che la vita ha senso solo in questa collaborazione con gli altri, vista da molti come una fatica e una perdita di tempo. Invece è il contrario, è solo così che realizziamo fino in fondo quello che è il destino della condizione umana. Non siamo isole o ponti bruciati, siamo penisole aperte".

La psichiatria deve occuparsi della fragilità?

"Prima la psichiatria si occupava solo delle malattie mentali: era quella che si faceva nei manicomi. Poi col tempo ha ampliato i suoi confini, fino a quelli estremi del dolore e della sofferenza: pensa di conoscere meglio quello che accade nella vita interiore di chi non ha malattie psichiche, ma soffre".

Cita Rilke: "Non crediate che colui, che tenta di confortarvi, viva senza fatica in mezzo alle parole semplici e calme, che qualche volta vi fanno bene... Fosse altrimenti, egli non avrebbe potuto trovare queste parole".

"Senza sofferenza non c'è conoscenza, ce lo dicono Eschilo e Simone Weil. Le parole di Rilke mi sono servite come maschera di quella che in fondo è la mia esperienza. L'essere psicologo senza avere conosciuto l'ombra, la penombra e, a volte, le tenebre della sofferenza dà minore attitudine a essere di aiuto agli altri".

Partecipa del dolore del paziente?

"La separazione, la lontananza fra psichiatra e paziente si colma, o può essere colmata se chi cura ha conosciuto o ha come compagna di strada la sofferenza. Più chiaro di così".

In tutto questo, le parole hanno un potere.

"Certo. Ci sono le parole impermeabili agli altri, fredde, gelide, dette considerando solo le nostre esigenze. Il peso e la responsabilità che abbiamo di ogni parola sono grandi".

Non ce ne accorgiamo?

"Se stiamo bene siamo distratti. Ma, appena stiamo male, subito acquisiamo coscienza della rapidità con cui le parole possono salvarci o, al contrario, farci precipitare nel gorgo della disperazione. Quante tragedie e sofferenze evitate, nelle scuole e nelle famiglie, se ci fosse maggiore attenzione per le parole dette".

Come ha iniziato il cammino nel mondo della psichiatria?

"Ero alla Clinica universitaria di Milano, dove ho preso la libera docenza. Ho lasciato la grande e celebre clinica per l'Ospedale psichiatrico di Novara".

Un manicomio.

"Allora la psichiatria si faceva fino in fondo nei manicomi. La cura era essenzialmente una scelta fra elettrochoc e farmaci".

Nel suo caso?

"Non ho mai fatto una sola volta un elettrochoc. Perché avevo capito che la cura passava attraverso l'ascolto e la somministrazione di farmaci, senza ricorrere a questo metodo, che ancora oggi è utilizzato in alcune case di cura e cliniche universitarie".

A Novara che cosa faceva?

"Per mia fortuna ero nell'Ospedale femminile. La follia femminile è più dolce, creativa, sensibile: forse non avrei scritto i miei libri, perché i grandi casi sono stati quelli delle pazienti donne. Una grande tenerezza anche nel roveto ardente della follia".

E con la chiusura dei manicomi?

"Ho dovuto lasciare per forza e sono andato a dirigere il reparto di psichiatria dell'Ospedale civile di Novara. Da centocinquanta pazienti a quindici letti".

Rispetto a quando ha iniziato che cosa è cambiato nella psichiatria?

"Il cammino terapeutico non è cambiato. Nelle altre specialità ci sono stati passi da gigante nell'innovazione; la psichiatria va avanti a essere l'incontro fra persone, da una parte chi ascolta e dall'altra chi parla, chi non soffre in quel momento e chi soffre drammaticamente".

Che cosa serve?

"Parole, psicofarmaci, pazienza, intuizione. Se si riesce, anche un timbro di amicizia fra paziente e medico può essere essenziale. Il metodo in psichiatria è sempre quello di quando è nata come scienza umana, e non soltanto naturale: appartiene alla medicina, ma tiene i piedi in due staffe".

Il fatto che non sia cambiata è positivo?

"È la sola possibilità che la psichiatria ha di realizzare se stessa. L'avanzata grandiosa della tecnologia non la tocca, perché in essa è in gioco l'umano. L'alleanza con la filosofia e la poesia, molto contestata, è indispensabile per aiutarla ad andare in fondo al suo destino, che è di avere come oggetto/soggetto la vita interiore e affettiva degli altri".

Perciò i poeti... Che cos'è "il silenzio delle sirene" di Kafka, di cui parla?

"Ci sono infinite forme di silenzio. Quello delle cattedrali, quello mistico di San Giovanni della Croce, quello di chi sta male, di chi non può parlare. E poi c'è il silenzio che significa rifiuto, rivolta. Il silenzio delle sirene è invece quello che affascina. È quello del cielo stellato che ci porta fuori dalla banalità quotidiana e fa presagire quello che Leopardi ha chiamato infinito".

Alcuni dicono che certe sue affermazioni siano buoniste.

"Sì, certo, d'altra parte se ci sono ideali in cui si crede, e soprattutto la sofferenza dei pazienti, quei tesori di bellezza nelle persone più deboli e fragili... Del resto, quello che dico della psichiatria farmacologica mi ha portato accuse feroci di essere crudele.

Allora sono buonista o crudele? In medio stat virtus, dicono".

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