Cultura e Spettacoli

"La frontiera del romanzo corre lontano dagli scrittori italiani"

L'autore della trilogia di Nevada: "Contano le storie forti non il virtuosismo stilistico"

"La frontiera del romanzo corre lontano dagli scrittori italiani"

La chiama con affetto la Jole, lo scrittore Matteo Righetto, la protagonista della sua Trilogia della Patria, di cui è appena uscito il capitolo conclusivo, La terra promessa (Mondadori, euro 18, pagg. 219). Si potrebbe azzardare che la Jole è il suo alterego, ma in verità a parlarne con lui - veneto classe 1972, vive tra Padova e Colle Santa Lucia, nelle amatissime Dolomiti si capisce che questa donna, figlia di coltivatori di tabacco in Nevada, Val Brenta, e pioniera di un'emigrazione che dal Veneto all'Oceano riassume l'epica del Novecento, è più uno spirito-guida. La Jole è un lare, memoria incarnata e speranza e in lei ci sta tutta la poetica di Righetto. Poetica globale, per visione: ha pubblicato anche negli Stati Uniti; i suoi romanzi sono tradotti in oltre dieci Paesi nel mondo, la Trilogia forse diventerà un film, ma basterebbe dire che la sua colonna sonora per scriverla sono state le musiche di Emmylou Harris, star country e bluegrass americana. Poetica localissima, per affezione: alla montagna, alla natura, al territorio dove è nato.

Patria: parola attuale.

«Non sono un saggista che lavora a tesi, sono un romanziere: invento storie. È vero tuttavia che alcuni temi di questa trilogia si sposano alla perfezione con l'attualità. Patria è uno di questi. Perché il mondo rurale di montagna veneto di fine Ottocento, in cui vi è grande miseria, porta queste persone a vivere di espedienti e in fin dei conti a migrare in massa, alla ricerca di una nuova patria. Ha ancora senso, si chiede la Jole, parlare di patrie e bandiere quando noi poveri cristi saremo sempre gli stessi e tra corona di spine e d'oro ci sarà sempre distinzione?».

Per lei la patria che cos'è?

«Non finisce con l'etimologia: io tra i boschi, o in biblioteca, mi sento in patria, qualcuno ci si sente in una chiesa. E due persone che soffrono dello stesso male non sono forse compatriote?».

Un'altra parola di attualità è frontiera.

«Che non è solo geopolitica. Jole, con il contrabbando di tabacco verso il confine, scopre la frontiera tra bene e male, tra ragione e follia, tra giovinezza ed età adulta».

E poi terra promessa.

«Quando la Jole deve partire, abbandona tutto per un viaggio combattuto tra nostalgia e speranza e come moltissimi veneti che abbandonano le montagne, affronta la sfida più dura: non saper dove andare, strappare le radici per coltivare la speranza di un futuro. Tutta la trilogia va letto in un senso non solo politico, ma culturale relativo all'oggi: spesso non sappiamo da dove veniamo e quindi dove andiamo. I giovani non sanno che i veneti sono stati migranti e non sanno che cosa faranno tra due anni. Dobbiamo interrogarci. E i romanzieri dovrebbero farlo per primi, invece che ruotare attorno al proprio ombelico, scrivere storie per gli amici degli amici».

Sarebbe a dire?

«Questa è anche la patria di Boccaccio, non solo di Petrarca e della lirica. Credo sia un po' un vizio della letteratura e della critica italiana: far risaltare scrittori che non sono semplicemente ombelicali ma perseguono come obiettivo il virtuosismo stilistico o il rapporto umano-umano».

Lei è diverso?

«Nel mio romanzo non mi schiero politicamente, ma grazie alla narrazione capisci qual è la condizione di un migrante: sto lasciando la casa e non ho un cazzo di voglia di lasciare la casa. Capisci molte più cose di quante ne scrive Saviano in un tweet e senza essere ideologico. Le cose vengono fuori perché le racconto. Mi sento nel solco della tradizione nordamericana: mi piacciono le storie potenti, gli scrittori da Mark Twain in giù, che hanno storie da raccontare. Molti scrittori italiani fanno buon compitini di stile, ma di un grande romanzo ricordi i valori che ti ha trasmesso. Oggi chi di noi riuscirebbe a citare una frase di Anna Karenina? Non è lo strutturalismo, la scelta lessicale sulla singola parola a vincere: credo ci siano altre cose che dovrebbero avere la precedenza. Che non significa romanzi commerciali, ma romanzi forti».

Per farlo la scelta giusta è l'epica, non l'attualità?

«Bisogna vedere il risultato, che giustifica sempre il mezzo. Un buon romanzo di cento anni fa inevitabilmente racconta anche le donne e gli uomini di oggi. Io insegno e mi chiedono sempre: Come sono gli adolescenti oggi? Ma come vuoi che siano? Dal punto di vista umano sono gli stessi che eravamo noi. Molti scrittori italiani da salotto nascono e muoiono in Italia, la Jole piace ad americani, australiani, tedeschi, sudamericani perché parla dell'uomo. Comunque, sono scelte: a me delle storie che raccontano la precarietà o le famiglie di fatto non me ne frega niente».

E di quelle che raccontano la fedeltà e l'infedeltà?

«L'opinione pubblica è spesso morbosamente attenta e vigile su questioni di bassissima rilevanza politica, culturale e sociale: tutto ci può stare, ma se dobbiamo capire che cosa interessa alle persone meglio che non facciamo gli scrittori».

Quindi non esiste uno scrittore che in buona fede cavalchi l'attualità.

«È la differenza tra progetto editoriale e progetto letterario: non mi interessa il #MeToo ma la condizione della donna. Nella condizione di autore vero non ti curi dei trend topic. L'epos ha a che fare con una dimensione avventurosa e rischiosa, dove i valori in gioco non cambiano soltanto la tua vita interiore, ma quella esteriore. Persone che rischiamo la pelle, si caricano le ossa di fatica per sopravvivere fino a sera e partono verso un luogo che non conoscono.

Con tutto il rispetto, credo che la fedeltà tra me e mia moglie comporti molti meno rischi».

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