Cultura e Spettacoli

Gaffe, genio e contestazioni Gaber secondo la sua band

Gaffe, genio e contestazioni Gaber secondo la sua band

A vederli qui t'aspetti che arrivi anche lui. Giorgio Gaber. Loro, i suoi musicisti. Per decenni lo hanno accompagnato in migliaia di concerti, «sempre tutto esaurito» dicono, e ci vuol poco a capirne uno dei motivi: suonano di brutto, come direbbe un rapper. Per l'ultima edizione del Festival Gaber ieri sera c'erano anche loro. «E abbiamo preparato quasi 50 canzoni», spiegavano nei camerini a pochi passi dal palco Gianni Martini con i capelli bianchi, Luigi Campoccia con una miopia che gli occhialini ora guariscono ma che una volta ha fatto uno scherzetto pure al Signor G, e poi Claudio De Mattei, Enrico Spigno, Dado Sezzi, Luca Ravagni, insomma maestri che li capisci appena attaccano a discuter di musica. Di Gaber, della sua attualità cronica e anti-ideologica si parla sempre. Di lui come musicista quasi mai, ed è un peccato. «Eppure aveva un orecchio micidiale: non conosceva solo le melodie: lui sapeva perfettamente ciascuna nota di ciascuna melodia», scandisce da toscano il Campoccia. Al suo primo debutto con Gaber, metà anni '80, quando il direttore di palco ha urlato il «chi è di scena», nella tensione scherzosa della semioscurità, ha dato un calcio nel sedere a quello che credeva un collega della band. Invece era Giorgio Gaber. «Volevo ammazzarmi», ride ora mentre tutti gli altri sghignazzano. «Per anni Gaber ha scherzato: non conto nulla, persino i miei musicisti mi prendono a calci nel culo».
Dopotutto che Gaber avesse intuito musicale ci vuol poco a capirlo: è arrivato sempre prima delle tendenze di massa. Era rock'n'roll quando in Italia avevano venduto solo due Fender Stratocaster. Ha cantato le «canzonette» ancora prima che le chiamassero così. Poi si è inventato il Teatro Canzone che tutti gli altri non riescono ancora a fare al suo livello. «Era un visionario come Pasolini, e quando sull'Unità di Veltroni un critico che non aveva neanche visto lo spettacolo gli diede del qualunquista ci rimase malissimo. Ma se non erano accuse così stupide si limitava a dire: “Mi stupisco che non sia stato capito un discorso così evidente“», dice uno della «sua» band. Ennò, per molti Gaber non era così evidente: «Spesso durante Quando è moda è moda dal disco Polli d'allevamento, chiaramente dedicato a un certo tipo di sinistra comunista, gli tiravano le monetine sul palco. A Napoli, alla fine della canzone La Chiesa si rinnova uno del pubblico in fondo alla sala si alzò urlando “Sei uno schifoso“. Ma, come cantava lui, “le parole sono come gli oggetti, progressivamente si logorano“».
Molte parole di Gaber sono rimaste, anche perché era ironico quindi atemporale, mai arrabbiato. Quindi mai fazioso: difatti «ai suoi spettacoli venivano pochissimi politici di grido». Chi si faceva notare era il pubblico. Spesso, dice la band, si commuoveva su certi versi. «Io stesso - spiega il Morlacchi - le prime volte che ho suonato Qualcuno era comunista sentivo affiorare le lacrime: ci ho messo un po' a capire quanto profondamente mi avessero toccato quelle parole». Come ha spiegato ieri Paolo Rossi, uno degli ospiti della serata con Claudio Baglioni, Arisa, Geppi Cucciari e Niccolò Fabi tra gli altri, «ora bisognerebbe scrivere “Qualcuno era del Pd“». Battute a parte, sarà per questo che Gaber fa vibrare anche i più giovani con le stesse emozioni voraci dei giovani di quarant'anni fa: «Ed è curioso accorgersi che ragazzi come Annalisa Scarrone o Renzo Rubino, che hanno poco più di vent'anni e sono agli esordi, l'altra sera qui abbiano cantato le sue canzoni con un'intensità bellissima», dice Gianni Martini, chitarrista che infila un genovesissimo «belìn» ogni due per tre. Dopotutto è stato sul palco con Gaber per quasi vent'anni: «E mi sono accorto di quanto fosse attento alla musica. Ad esempio, musicalmente la sua La ragnatela è stata influenzata da certe sonorità alla Mahavishnu Orchestra. Gaber era pazzo per i King Crimson e i Weather Report. Gli piaceva il modo di utilizzare le percussioni di Phil Collins. Ha ascoltato molto Graceland di Paul Simon. E quando Peter Gabriel pubblicò Shock the monkey rimase in estasi per mesi». Come dicono loro, «Giorgio non era uno di quei divi con il camerino pieno delle proprie foto, le sue foto erano i pensieri e la musica».

E si arrampicava con la musica con i propri pensieri, una musica che sapeva leggere e che ieri sera, forse per l'ultima volta, la sua band ha fatto suonare come se lui stesse per arrivare da un momento all'altro.

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