Cultura e Spettacoli

Gide si confessa: autobiografia del senso di colpa

Andrea Caterini

Q uello di André Gide è un caso più unico che raro nella letteratura europea. Se ci chiedessero quale sia il capolavoro di Joyce, o quello di Mann, per non parlare di Proust, o quello di Musil, di Conrad o di Kafka, avremmo sicuramente pochi tentennamenti. Certo, ognuno risponderebbe a proprio modo: di Mann La montagna magica o il Doctor Faustus; di Kafka Il processo o Il castello; di Joyce L'Ulisse o Gente di Dublino; di Conrad Lord Jim o La linea d'ombra? Ma se la domanda fosse rivolta all'opera di Gide la difficoltà sarebbe maggiore: L'immoralista, I sotterranei del Vaticano, Paludi, I nutrimenti terrestri? Nessuno di questi titoli ci soddisferebbe. Eppure, non avremmo alcun problema ad affiancarlo ai maggiori scrittori tra Otto e Novecento, non solo per l'attestato di grandezza, per così dire, conferito dall'aver ricevuto il Nobel nel 1947.

Penso che questo dubbio dipenda da una questione precisa. Gide affidò non a un singolo libro, ma all'intera sua opera un carattere unitario tale da non permetterci di scegliere. L'unità nasconde una ragione che è alla base della sua stessa necessità di scrivere. Gide compose i suoi libri come fossero un ininterrotto diario. E non è un caso infatti che la sua opera più imponente (e forse davvero il suo capolavoro) sia proprio il Journal, che cominciò a scrivere dal 1887 fino al 1950 e che Bompiani ha riportato in libreria lo scorso anno in un'edizione in due volumi curati da Piero Gelli. Ma perché il diario? Proprio in una pagina del Journal dell'aprile 1893 troviamo questa disperata invocazione: «O mio Dio, fate che vada in pezzi questa morale troppo rigida e fate che io viva oh! pienamente; datemi la forza di farlo oh! senza timore che debba sempre pensare di cadere in peccato». Sembra una preghiera retorica, invece qui c'è tutto Gide. La verità è che il diario era la forma che meglio poteva esprimere quella sua necessità di confessione. Da dove provenga il senso di colpa dal quale si vuole liberare, lo scopriamo in un romanzo autobiografico (l'ennesima confessione), che era assente dalle librerie italiane dagli anni Ottanta: Se il grano non muore (traduzione di Garibaldo Marussi, prefazione di Piero Gelli, Bompiani, pagg. 352, euro 14). L'infanzia solitaria e l'incapacità di stringere amicizie coi propri compagni, l'educazione puritana, la morte del padre, i precetti di una madre religiosa fino al soffocamento, la scoperta della propria omosessualità, ma vissuta sempre come una colpa (per questo la lettura di Oscar Wilde fu per lui una rivelazione, perché gli fece assaporare una libertà che egli non riuscì mai a raggiungere), tanto da farlo sposare a sua cugina, salvo poi rifiutarsi di consumare il matrimonio. Ma ciò che di Gide commuove, è proprio questo suo restare sospeso tra un desiderio che con prepotenza vorrebbe emergere e ciò che quel desiderio reprime, soffoca, giudica: «So benissimo il torto che mi faccio raccontando queste cose e quelle che seguiranno () Ma il mio racconto non ha altra ragion d'essere che la verità. Mettiamo che io scriva per penitenza».

Ma questa forma di penitenza che fu la scrittura, se gli diede la forza di confessarsi, non gli concesse però mai la gioia di sentirsi liberato dalla colpa.

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