Cultura e Spettacoli

Goodbye Al Jarreau, abbiamo perso il lato pop-jazz della "black music"

Era un professore autodidatta della musica che sapeva leggere nello spirito delle note. Uno psicologo che, mossa dopo mossa, giocava a scacchi con il suo jazz.

Goodbye Al Jarreau, abbiamo perso il lato pop-jazz della "black music"

Alla fine se ne è andato anche lo psicologo della black music. Qualche giorno fa Al Jarreau era stato ricoverato per esaurimento nervoso a Los Angeles. Una diagnosi inconsueta per un signore di 76 anni visto che, oltretutto, in tempo reale erano stati annullati tutti gli impegni mondiali già fissati. Difatti.

Al Jarreau era nato nel 1940 a Milwaukee nel Wisconsin più conservatore e, essendo figlio di un vicario della Chiesa Avventista, era entrato in un coro gospel. Poi da bravo ragazzo aveva studiato, si era laureato in psicologia e soltanto dopo si era buttato nella musica, prima cantando nei piccoli club jazz (disco d'esordio nel 1965) poi diventando negli anni Settanta un simbolo di quel pop jazz che allora aveva cittadinanza anche in classifica. Per capirci, era uno capace di trasformare Your song di Elton John oppure Mas que nada di Jorge Ben in canzoni nuove e tecnicamente sopraffine. Poi, con la sventagliata di ritornelli ed elettronica di inizio anni Ottanta, pubblica un disco di delizioso e raffinatissimo come Breakin' away. A quel punto Al Jarreau è una superstar conclamata, l'unico a vincere tre Grammy in tre categorie diverse (pop, jazz e R&B). E aveva una sensibilità molto black, assorbita in famiglia e poi nel mondo che lo aveva cresciuto fino a condividerla con altre icone come Nile Rodgers degli Chic (che gli produsse l'album L is for lover). Era insomma la faccia colta del pop americano, quello spesso attraversato da vampate di improvvisazioni kitsch. Non a caso uno che sa come funziona il mondo, cioè Quincy Jones, lo invitò a collaborare con rockstar e popstar come Michael Jackson, Stevie Wonder e Bruce Springsteen nel progetto We are the world, altro megasuccesso nelle classifiche a ogni latitudine. Da allora iniziò a lavorare come si dovrebbe sempre fare: con progetti mirati, qualche volta riusciti (Heaven and Earth), altri meno (Tenderness) e con tanti concerti nei posti più adatti alla musica.

In più, con quello spirito american o tipicamente nomade ma pure economicamente redditizio, accettava spesso collaborazioni oppure ospitate talvolta quantomeno imprevedibili come la sua partecipazione al Festival di Sanremo del 2012 con i Matia Bazar oppure l'apparizione di pochi mesi prima al Resto Umile Show di Checco Zalone. Divertito e divertente. D'altronde quella è sempre stata la sua way of life, la sua attitudine di professore autodidatta della musica che sapeva leggere nello spirito delle note. Uno psicologo che, mossa dopo mossa, giocava a scacchi con il suo jazz.

PG

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