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La prima guerra americana contro il terrore islamico

Un saggio racconta lo scontro tra gli Usa e i corsari del Nord Africa. Rapimenti, ricatti e abbordaggi contro gli «infedeli» innescarono la reazione del giovane Stato. Che ottenne così il rispetto del mondo

La prima guerra americana contro il terrore islamico

C' era un Paese giovane, nato da poco in un continente ancora nuovo, con finanze scarse e un prestigio tutto da costruire. E c'era già un nemico che lo sfidava: i signori del Nord Africa, il sultano del Marocco, i pascià di Algeri, Tunisi e Tripoli. C'era una volta l'America, e c'era già un terrore da affrontare: veniva dal mare, erano pirati, corsari senza scrupoli che predavano, rapivano i marinai, li rendevano schiavi, li trattavano come bestie. Per questi uomini finiti in catene c'erano solo tre possibilità: la fuga (molto difficile); il riscatto (che qualcuno doveva però pagare); la conversione.

Perché quei pirati erano musulmani, e per loro quegli uomini bianchi e cristiani erano nemici per definizione: infedeli, quindi da sottomettere, sfruttare, punire, eventualmente bruciare (se, per dire, avessero insultato l'islam).È la fine del Settecento, ed è il primo scontro fra gli Stati Uniti e il mondo islamico: da un lato una nazione indipendente da pochi anni che ha ancora sulle spalle i debiti di guerra, non ha un budget da destinare alle forze armate ma ha un bisogno disperato di rafforzare la sua economia, di commerciare anche nel vecchio continente e specialmente nel Sud; dall'altro, una regione intera abituata, da secoli, a catturare le navi mercantili e sottomettere chi è a bordo. È una guerra, già allora, ed è la prima: come racconta Thomas Jefferson and the Tripoli Pirates (scritto da Brian Kilmeade e Don Yaeger, è pubblicato da Sentinel, pagg. 238, dollari 27,95), un libro che è entrato nella classifica dei bestseller del New York Times. La tesi degli autori è nel sottotitolo: The forgotten war that changed American history, cioè la guerra dimenticata che ha cambiato la storia americana, quella appunto di Jefferson contro «quattro poteri musulmani» che è poi, spiegano, «quella che, in molti modi, stiamo ancora combattendo».Le ragioni che spinsero il terzo presidente degli Stati Uniti all'azione militare erano innanzitutto economiche: il «tributo» richiesto dai pascià locali era troppo costoso per un Paese ancora debole finanziariamente; però non si poteva rinunciare a un'area così importante per il commercio, e non si poteva nemmeno cedere, mostrarsi inerti davanti al mondo, perché la nuova nazione aveva bisogno di costruirsi anche un'immagine, una credibilità.

Nessuno però, fino ad allora, aveva avuto il coraggio di intaccare una pratica ormai consolidata: era un sistema, lungo la cosiddetta «costa barbaresca» l'economia «si era costruita per secoli sui rapimenti, i furti e il terrore», e altri Stati ben più potenti e solidi degli Usa avevano di fatto accettato di pagare per non essere disturbati (o non troppo). Ma l'America, appunto, non può pagare. Nemmeno quando Richard O'Brien e i marinai della Dauphin vengono catturati al largo di Algeri: è il 1785, e resteranno confinati laggiù dieci anni. In quello stesso anno, Jefferson, a Parigi come ambasciatore, attraversa la Manica e si reca dall'(allora) amico John Adams, diplomatico a Londra e futuro presidente. Organizzano un incontro con Sidi Haji Abdrahaman, inviato di Tripoli in Inghilterra, il quale spiega tranquillamente che «tutte le nazioni che non riconoscono il Profeta sono composte da peccatori, ed è diritto e dovere dei fedeli saccheggiarli e ridurli in schiavitù». Più chiaro di così. Altro che diritti inalienabili dell'uomo, era semplicemente «scritto nel Corano», aveva spiegato Abdrahaman. Il quale non solo non si era scusato, ma non aveva mostrato il minimo rimorso per gli americani prigionieri e maltrattati o per le merci depredate: «Ogni musulmano che abbia perso la vita in questa battaglia è sicuro di essere andato in paradiso». Il capitano O'Brien, dopo dieci anni di sequestro, dirà: «I soldi sono il loro Dio e Maometto il loro Profeta».

Gli Stati Uniti però esitano a impegnarsi in una guerra. Adams insiste per negoziare, anche quando arriva alla Casa Bianca; mentre Jefferson, fin da quell'incontro a Londra, si convince di non voler «comprare la pace». Crede nella «libertà dei mari», e scrive ad Adams che avrebbe «preferito ottenerla con la guerra». Prima però ci sono l'umiliazione della George Washington, una delle prime navi della Marina Usa, costretta a «diventare uno zoo» e portare tesori, soldi e animali a Costantinopoli; l'invio della prima flotta per imporre un blocco navale a Tripoli (senza però il permesso di fare prigionieri); la dichiarazione di guerra da parte dello spietato pascià di Tripoli Yusuf (che aveva usurpato la reggenza al fratello); la nuova umiliazione della Philadelphia, catturata nel porto di Tripoli; l'impresa del capitano Stephen Decatur per incendiarla nottetempo, pur di non lasciarla in mano al nemico; la rimobilitazione del corpo dei Marine, che vengono impiegati nella missione per liberare i futuri territori libici in una leggendaria traversata guidata da William Eaton, che sarà accolto come eroe in patria «per avere vinto la prima battaglia dell'America su suolo straniero» (a Derna); la prima «operazione congiunta» tra la Marina e le forze di terra.

L'America impiega dal 1801 al 1805 per vincere la guerra nel Mediterraneo (con uno strascico, breve e devastante - per i nemici - nel 1815). Alla fine ottiene: la liberazione dei prigionieri americani e non solo, la libertà di circolazione (senza dover pagare tributi), la riparazione dei danni subiti, il rispetto internazionale. Come aveva sostenuto Jefferson, gli Stati Uniti «dovevano giocare un ruolo anche militare negli affari oltreoceano». E soprattutto dimostrare che «il fallimento in America non è un'opzione», anche se «molte nazioni credevano - e speravano - che l'esperimento americano fallisse». Come oggi..

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