Cultura e Spettacoli

La guerra di Svevo all'«antivita» (vinta con l'arma dell'ironia)

Un'indagine, fra indizi e false piste, sulla lotta dello scrittore contro «quella ridicola cosa che si chiama letteratura»

Stenio Solinas

Vivere un'antivita è un affare complesso. Una negazione in cerca delle proprie ragioni, un io diverso in cerca della propria identità si confrontano con lo specchio di una quotidianità che non riflettendoli ne garantisce l'esistenza in virtù della segretezza. «Io è un altro» diceva Rimbaud, ma è nella separazione il suggello di un'unione altrimenti impossibile.

Su questa dicotomia, nutrita di rifiuti quanto di complicità, Maurizio Serra ha costruito il suo Antivita di Italo Sevo (Aragno, pagg. 394, euro 25), libro che è insieme biografia, saggio letterario e ritratto storico di quel «mondo di ieri» andato in pezzi con la grande guerra e di cui proprio Svevo sarà figlio modello e coscienza inquieta, vita e antivita che fronteggiandosi appunto si completano.

Quanto e se l'antivita sveviana sia stata una prigione o invece la condizione necessaria per una rigenerazione finale, quella Coscienza di Zeno che illumina retrospettivamente Una vita e Senilità, è uno dei fili intorno a cui si dipana l'indagine di Serra, critico e insieme investigatore perché, da buon «ladro letterario», per usare una bella immagine di Jorge Edwards, costretto cioè a rubare tempo per la letteratura, Svevo ha seminato intorno a sé e alla sua opera indizi veri e prove false, lasciandoci sì un autoritratto, ma in posa: «Per venticinque anni m'astenni dallo scrivere. Se ci fu un errore, fu errore mio».

L'equivoco di un'antivita soffocata dalla vita lo si deve a lui e se ne porta dietro molti altri, frutto anche di idiosincrasie e malumori. All'indomani della morte, Roberto Bazlen, che della scoperta di Svevo è stato il sotterraneo ispiratore, parlerà della «leggenda d'uno Svevo borghese intelligente, colto, comprensivo, buon critico, psicologo chiaroveggente nella vita ecc. Non aveva che genio: nient'altro. Del resto era stupido, egoista, opportunista, gauche, calcolatore, senza tatto; la leggenda della nobile esistenza (dedicata unicamente - ad eccezione dei tre romanzi - a fare soldi) è tropo penosa, e troppo ignobile». Giustamente Serra osserva che «queste parole sarebbero state (forse) comprensibili in un critico marxista puro e duro, che ravvisava nel borghese e notabile Ettore Schmitz un nemico di classe (...). Bazlen sbagliava, maldicenze a parte: non ha senso sminuire il borghese per esaltare l'artista. Nell'antivita di Italo Svevo coesistono entrambi».

Un occhio alle date aiuta a comprendere il perché di un giudizio così tranchant: Bazlen ha 23 anni quando, nel 1925, entra in contatto e poi legge Svevo, il quale è invece già oltre i sessanta, ed è difficile che fra un giovane fondamentalmente impegnato a dilapidare il patrimonio di famiglia e un anziano borghese cresciuto con la vergogna del fallimento imprenditoriale paterno ci potesse essere una comunione dei sensi extra-artistica: erano agli antipodi. Anni dopo, in Intervista su Trieste, quell'immagine negativa verrà singolarmente spazzata via da un ricordo. Siamo a Trieste, la Trieste absburgica di prima della Grande guerra e, racconta Bazlen, al telefono con un'amichetta la figlia di Svevo canta una canzone patriottica italiana. La telefonista interviene: «Ste atente, putele, a quel che fè»... Spaventata, la piccola lo racconta al padre e questi ne parla con l'amico Felice Venezian, uno dei teorici dell'irredentismo triestino. Venezian va a lamentarsi dal direttore delle Poste e telegrafi: «Violazione del segreto telefonico» protesta italianamente. Da coscienzioso servitore dell'imperial regio governo il direttore gli dà ragione e licenzia in tronco l'impiegata. «Crisi di coscienza di Zeno di Svevo che per colpa sua quella povera diavola ha perduto il posto con pensione, va a parlamentare col direttore delle Poste che resta irremovibile e Svevo, per mettere a posto la coscienza di Zeno, cerca un altro lavoro per la telefonista licenziata». Se era questo lo Svevo «gretto, egoista opportunista e senza tatto», qualcosa non torna...

Fra «quella ridicola cosa che si chiama letteratura» e il vizio, ora punito, ora «impunito» della stessa, Svevo visse tutta la sua esistenza in un precario, ma riuscito equilibrio. Osserva Serra che, rispetto a Umberto Saba, anch'egli triestino, ma suo contrario, il quale «sembrava temere tutto, tranne il proprio talento, Ettore non temeva altro che l'Italo ancora pulsante e vivente in lui». Sotto questo profilo, il mancato riconoscimento critico che, per il successivo ventennio, seppellì con Senilità le speranze accese pochi anni prima da Una vita, viene da Serra ricondotto nelle sue giuste dimensioni, recuperando ancora l'immagine di un Saba «che aveva bisogno di soffocare a Trieste piuttosto che respirare altrove».

In Una vita, il giovane impiegato di banca Alfonso Nitti viene associato dalla figlia del suo datore di lavoro, la bella e fatua Annetta, nell'impresa di scrivere un romanzo: «Era necessario che a loro occorreva il successo» scrive ironico Svevo. «Non desideravano la gloria futura e non pensavano affatto alla posterità, ma volevano il pronto successo». Una delle chiavi dell'antivita di Svevo in fondo è proprio l'ironia, la straordinaria capacità di ridere di se stessi e poi del mondo e dell'assurdità che lo pervade. «A differenza delle altre malattie» dice il protagonista di La coscienza di Zeno, «la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati». Serra fa bene a sottolineare come l'umorismo «abbia un ruolo centrale in Svevo uomo e scrittore. Si tratta di una molla autentica della sua personalità, non solo di una strategia difensiva contro gli insulti e le mortificazioni dell'esistenza».

Frutto di un'analisi minuziosa di fonti disparate, il lavoro di Serra illumina l'itinerario intellettuale di chi, fingendo di aver ceduto la penna di fronte alla vita, in realtà per tutta la vita continuò silenziosamente a scrivere: favole e racconti, testi teatrali... Ciò conferma e insieme contraddice l'affermazione di Svevo «io all'ispirazione ci credo e non credo affatto alla pazienza», perché difficilmente senza la «pazienza» di cui si fa sostanza la sua vita ci sarebbe stato spazio per l'«ispirazione» da cui muove la sua opera. E del resto, come già aveva osservato Nietzsche, può capitare che «una forza creativa» ingorgata finisca «per straripare come se avesse luogo un'ispirazione immediata. Il capitale si è appunto solo accumulato, non è caduto a un tratto dal cielo».

Altro pregio del libro è il liberare Svevo dalle camicie di forza via via assegnategli criticamente di un'ebraicità, che gli era estranea, così come di una psicanalisi che in lui non fu altro che strumento artistico: «Grande uomo questo nostro Freud ma più per i romanzieri che per gli ammalati».

Forse, più che un'antivita, quella di Svevo fu una vita duplicata.

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