Cultura e Spettacoli

Hilary Swank: "Il mio Oscar è stato lavorare con Clint"

L'attrice si confessa: "Sul set è sempre la prima volta". E poi rivela: "La tv ora ci concede molta più libertà"

Hilary Swank: "Il mio Oscar è stato lavorare con Clint"

Locarno - «E ora è meglio che cominci ad allenarti, cara». Il giorno che Clint Eastwood le rivolse queste parole, Hilary Swank capì tre cose. Era stata scelta come protagonista di Million dollar baby. Non era solo una questione di muscoli. E la sua carriera, con quel ruolo di pugile, stava solo iniziando. Nonostante un Oscar già conquistato con Boys don't cry, la sfida continuava. Quella ragazza del Nebraska, nata da umili origini, vissuta in un parcheggio per roulotte in un paesino al confine con il Canada, che non aveva mai frequentato scuole da attrice, doveva farcela da sola. E l'ispettore Callaghan, quello del caso Scorpio, era il suo maestro. «Uno che sa benissimo come si sta davanti e dietro la macchina da presa. Soprattutto un semplice che ama la semplicità e accetta di buon grado il contributo che ognuno, nel suo piccolo, è capace di dare. Uno che protegge e sprona. Insegna e mette a proprio agio».

Il californiano è stato il pigmalione che quella fanciulla del Nord non aveva mai avuto. E grazie a lui è salita su un ring e ne è scesa con un'altra statuetta che l'ha inserita nel pantheon di Hollywood. «Quando si raggiunge quel traguardo è difficile superarsi. La via d'uscita è pensare di non aver fatto nulla. Continuare a lavorare - e a recitare - come se il passato non esistesse. Come se fosse sempre una prima volta». E ora il pardo a Locarno Film Festival. Il passo successivo fu Black Dhalia, con un altro mostro sacro del calibro di Brian De Palma. Capodanno a New York dell'italo americano Garry Marshall, autore di Pretty woman. E soprattutto P.S. I love you, di cui è appena uscito il sequel sulla carta stampata. «Me l'hanno mandato in anteprima. È bellissimo. Chissà...». Per una che, in amore, di pasticci ne ha fatti parecchi, spezzando cuori altrui e anche il suo, questo tasto è proibito. E il suo mondo resta il cinema.

«Sono stata fortunata, i copioni che mi hanno proposto sono sempre stati di alto livello. Ho avuto l'imbarazzo della scelta». E ora che molti suoi colleghi si sono trasferiti sul piccolo schermo quella sorte è toccata anche a lei. «Le produzioni indipendenti hanno preso piede e la tv le ha recepite. Oggi, insomma, c'è maggiore indipendenza. Chiamatela pure libertà, se volete».

I divi diventano più popolari. Entrano nelle case. Sono più vicini al loro pubblico. Quella ragazza del Nebraska con due Oscar in tasca è rimasta la donna semplice delle sue origini. Una che, per tutti, è spuntata dal nulla e ce l'ha fatta. «E invece non è così. Mi sento dire che al primo film ho raggiunto quell'Oscar per molti rimasto un sogno irraggiungibile. Eppure, prima di quel trionfo, di gavetta ne ho fatta tanta. Ed è stato giusto. Perché nulla si improvvisa».

Lei, il transgender per Kimberly Peirce, che nel '99 sembrava in anticipo di millenni «e oggi invece la società ha accettato con molta più naturalezza di quanto si creda». Tempi che cambiano. Costumi che si trasformano e talvolta impediscono al cinema di invecchiare come Boys don't cry che sembra fatto ieri e ha già vent'anni.

Storia di un mondo sottosopra che ha travolto perfino il mito della notorietà. «Quando si diventa famosi anche i comportamenti più semplici diventano complicati. Prendere un metrò a New York, ad esempio». A far saltare il banco ci ha pensato internet. Gli smartphone. I social. L'universo perennemente connesso. «E chi ha toccato la celebrità paga un prezzo più basso. Viviamo in una sfera di zombie metropolitani. Con gli occhi incollati sullo schermo minuscolo di cellulari e tablet. Facce esterrefatte e attonite davanti al nulla pneumatico del web. Tra espressioni strane e gesti al limite della schizofrenia. Così, nella distrazione generale, finalmente, posso prendere il metrò.

Tranquilla».

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