Cultura e Spettacoli

I migranti di Rosi già fuori dalla corsa per il film straniero

"Fuocoammare" resta in gara tra i documentari. Ma ha tolto un'opportunità a un'altra pellicola

I migranti di Rosi già fuori dalla corsa per il film straniero

L'Academy hollywoodiana ha annunciato ieri le nove opere, scelte tra 85, che restano in gara per l'Oscar per il miglior film in lingua straniera. Tra di esse non c'è il candidato dell'Italia Fuocoammare di Gianfranco Rosi. Una delusione cocente per un film che, complice il tema tragico della morte in mare dei migranti, sembrava avere tutte le carte in regola per commuovere i membri della commissione ristretta di Los Angeles. In fondo si è curiosamente ricreata la situazione dei recenti «Oscar» europei, i premi Efa di domenica scorsa, dove Fuocoammare ha vinto come miglior documentario - e ricordiamo che il film di Rosi è per ora nella cosiddetta shortlist dei 15 film che concorrono agli Oscar per il documentario - mentre i premi principali sono andati a pellicole che ora troviamo in gara per la statuetta per il miglior film straniero, come Vi presento Toni Erdmann di Maren Ade (Germania), La mia vita da zucchina di Claude Barras (Svizzera) e A man called Ove diretta da Hannes Holm (Svezia). A questi titoli si aggiungono Tanna di Bentley Dean e Martin Butler (Australia), È solo la fine del mondo di Xavier Dolan (Canada), Land of Mine di Martin Zandvliet (Danimarca), Il cliente di Asghar Farhadi (Iran), The King's Choice di Erik Poppe (Norvegia) e Paradise di Andrei Konchalovsky (Russia). Il 24 gennaio, giorno dell'annuncio delle cinquine di tutte le categorie, sapremo quali di questi nove film rimarranno in gara fino al vincitore della 89esima cerimonia che si svolgerà il 26 febbraio al Dolby Theatre di Hollywood.

Naturalmente oggi pesano le parole espresse a settembre da Paolo Sorrentino, uno che di Oscar per il miglior film straniero un po' se ne intende essendo stato l'ultimo italiano a vincerlo con La grande bellezza, all'indomani della votazione della commissione di cui faceva parte: «Fuocoammare è un bellissimo film, ma andava candidato all'Oscar nella categoria dei documentari. Questa scelta è un inutile masochistico depotenziamento del cinema italiano che quest'anno poteva portare agli Oscar due film: un film di finzione che secondo me avrebbe avuto molte chance è Indivisibili di Edoardo De Angelis, mentre Fuocoammare può concorrere e vincere nella categoria dei documentari». Non sapremo mai se il film sulle gemelle siamesi (escluso per 4 voti a 5) oppure un altro tra i sette titoli candidabili per l'Italia (Gli ultimi saranno ultimi di Massimiliano Bruno, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, Pericle il nero di Stefano Mordini, Suburra di Stefano Sollima) avrebbe avuto più possibilità, rimane il fatto però che il ragionamento di Sorrentino non faceva una piega. E la dimostrazione è la presenza di Fuocoammare tra i candidati per l'Oscar come migliore documentario. Il film di Rosi, 700mila euro al botteghino (non poco per un doc), aveva ricevuto l'Orso d'Oro allo scorso festival di Berlino dalle mani della presidente di giuria Meryl Streep, che si era innamorata di questo film ambientato a Lampedusa tra gli abitanti dell'isola e i migranti che arrivano dal mare. Naturalmente è questo secondo aspetto ad aver preso il sopravvento nel film, che non è un documentario in senso classico quando rimette in scena le giornate del piccolo Samuele che ha l'occhio pigro - pesante metafora colpevolizzante della nostra supposta cecità sul fenomeno dell'immigrazione - mentre lo diventa quando filma la morte dei migranti.

Qui però l'utilizzo delle immagini pone più di un problema in un film che tende a un estetismo lirico (vediamo pure una lacrima piena di sangue di un migrante). È dunque accettabile che le sequenze di persone che rantolano, che stanno morendo, vengano utilizzate e trattate digitalmente ed esteticamente alla stregua di tutte le altre per realizzare un'opera d'arte? Il momento della morte, poiché più privato, non è diverso pure dalla morte stessa che Rosi ci mostra poggiando la macchina da presa nelle stive rigonfie di cadaveri? Forzando l'intimità dei soggetti che ritrae, il regista impone il suo sguardo, certamente forte ma mai interrogativo, che lo spettatore subisce non potendo mai entrare in dialogo con esso.

Chissà che non se ne siano accorti anche ad Hollywood.

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