Cultura e Spettacoli

"I nostri film fanno schifo? Però siamo sempre primi"

Lo sceneggiatore in vetta alla classifica con la commedia Mai Stati Uniti: "Il grande sconfitto è il cinema d'autore. Non tiene più conto del pubblico"

Una scena da Mai Stati Uniti
Una scena da Mai Stati Uniti

Mai stati meglio. Ai Vanzina la Befana ha portato la calza più ricca: il loro Mai Stati Uniti, commedia all'italiana diretta da Carlo Vanzina, scritta dai fratelli Carlo ed Enrico insieme a Edoardo Falcone e interpretata da Vincenzo Salemme, Ambra Angiolini, Ricky Memphis, Anna Foglietta, vola al botteghino (2.062.426 euro d'incasso), lasciandosi dietro pezzi da novanta come Giuseppe Tornatore (La migliore offerta) e Tom Cruise (Jack Reacher). Piaccia o no, tra le «va(ca)nzinate» e il pubblico delle feste - nonostante la crisi - c'è stato feeling. Eppure, non molto tempo fa, tra un cinepanettone avariato e una commedia all'italiana ammuffita, i pariolini figli di Steno, professionisti solidi dalle alterne fortune, facevano storcere la bocca ai seguaci del cinema alto, colto, tormentato.

Enrico Vanzina, finito l'ostracismo?

«Che facciamo un genere "scemo", non lo dicono più. Ormai ci studiano all'Università! Piovono tesi di laurea sui nostri film e gli studenti ci scrivono, per conoscere i segreti del cinema popolare. Siamo diventati stracult».

Come siete diventati «stracult»?

«Dopo cento film, dove abbiamo trattato tutti i generi... Alla fine, il numero uccide i pregiudizi».

Arriva ossigeno al cinema italiano, che nel weekend befanesco ha incassato poco più di 12 milioni di euro, il 14% in meno, rispetto all'anno scorso?

«Certo. Anche se Mai Stati Uniti poteva fare di più: è uscito nel momento dei saldi e delle partite... Ma il dato vero è che gli esercenti di tutt'Italia ci hanno telefonato, per comunicare che il film piaceva alla gente. Abbiamo fatto un film leggero, simpatico, che ha divertito. I numeri, poi, certe volte giocano brutti scherzi».

In che senso?

«A volte, film brutti fanno soldi e generano numeri. Però, nessuno li va a vedere. Soprattutto i séguiti, dopo il primo film, che ha avuto successo. Bisognava ridare fiducia allo spettatore italiano».

Lo spettatore italiano, in sala non ci va più. Per via dei brutti film e della crisi?

«Diciamolo: il grande sconfitto è il film d'autore. È stata una Caporetto, da Bellocchio in poi. Bisognerebbe riflettere meglio su come girare i film d'autore. E pensare che, dietro il film, c'è un pubblico del quale tener conto. Gente che paga il biglietto. Mi fa enormemente piacere che il film di Tornatore abbia, a sua volta, incassato. Anche se non è un film italiano. Ma una storia mitteleuropea, con attori stranieri».

Nel 2013 la commedia all'italiana potrebbe tornare sul podio?

«La commedia all'italiana la fanno in pochissimi, innanzitutto. Chi racconta come siamo? Poi, questo genere è sempre piaciuto: su settanta film l'anno che si fanno in Italia, ben oltre la metà sono commedie. D'altronde, viviamo in un mondo globale e se non ti aggrappi all'unico genere che ti restituisce la tua identità, che fai?»

È l'unico spazio che ci lascia il cinema americano?

«Sì, basta guardare gli incassi in Francia, o in Spagna. Dove vanno bene unicamente le commedie nazionali, nelle quali si parla dell'identità popolare. Si tratta dell'unico margine, che ci lascia il cinema globale».

In Francia impazza la polemica sugli incassi degli attori e sui film, sovvenzionati dallo Stato...

«I film francesi costano il doppio dei nostri. Ma loro hanno un sistema di rientri televisivi più vantaggioso: quando vanno in tivù, i film vengono pagati meglio. Noi facciamo film che costano poco, ma i rientri tivù sono inferiori, perché in Italia c'è un monopolio televisivo».

Il cinema assistito dallo Stato, soprattutto in tempi di tagli alla spesa pubblica, non dovrebbe esistere. O no?

«Se si viene assistiti dal denaro pubblico, devi fare alcuni ragionamenti. L'industria privata fa conti più semplici: tanto si spende, tanto si guadagna. L'America insegna. Ma in Italia si continua a non considerare il cinema un'industria. Poi, c'è il discorso dei nostri film all'estero: un disastro».

Il nostro cinema, all'estero, è mal rappresentato?

«Di sicuro: ogni tanto, fanno certe imbarcate...

30-40 persone, negli Stati Uniti, o altrove, per portare film che non ci rappresentano».

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