Cultura e Spettacoli

Carlo Lizzani: "I nostri film più moderni? Sono ancora i neorealisti"

A 91 anni il maestro spiega che "oggi l'unica vera novità sono gli effetti speciali": E poi smonta un luogo comune: "A quei tempi non ci sentivamo rivoluzionari"

Carlo Lizzani: "I nostri film più moderni? Sono ancora i neorealisti"

«Il neorealismo? Una bandiera. Anzi una bella bandiera del cinema italiano. Ma incassi pochini - spiega Carlo Lizzani, regista e storico del cinema -. La gente forse non era ancora pronta». Eppure quei film di Rossellini, Visconti e De Sica hanno cambiato il volto del cinema, puntualizza Lizzani che a 91 anni torna come attore in un docu-film dal titolo Non eravamo solo... ladri di biciclette. Scritto dallo stesso Lizzani e diretto e prodotto da Gianni Bozzacchi e che sarà presentato in anteprima alla presenza di Giorgio Napolitano il prossimo 19 marzo.

Perché proprio oggi un film sul neorealismo?
«È stato Gianni a insistere. Dice che all'estero è ancora una domanda di rito quando si incontra un italiano. Segno che l'argomento è ancora “caldo” nonostante tutto il tempo passato. Segno, però, soprattutto del fatto che quel fenomeno ha rappresentato una svolta radicale nella storia del cinema».

Una rivoluzione?
«Così la definì André Bazin. Il grande critico e storico del cinema ha più volte ribadito che proprio grazie a pellicole come Riso amaro, Sciuscià, Ladri di biciclette, Germania anno zero e Paisà, è radicalmente mutata la sintassi del racconto cinematografico. E ancora oggi portiamo le conseguenze di quelle innovazioni».

Vale a dire che al cinema di oggi si possono ammirare gli epigoni di quel movimento?
«No, questo non proprio. Però la libertà espressiva che si è ottenuta allora ha permesso il cinema d'autore di chi è venuto dopo. Da quello di Antonioni a quello di Bertolucci, fino a Bellocchio e ai fratelli Taviani, che - tra l'altro - mi sembrano la migliore espressione del cinema di oggi».

Come dire: largo ai giovani.
«Ci sono giovani di talento. Questo sì. Ciò che però manca è un cinema capace di catalizzarsi su temi comuni e su poetiche condivise. Insomma non c'è più “movimento”. Però bei film se ne fanno ancora oggi, penso alle pellicole di Matteo Garrone e a quelle di Mario Martone, da Teatri di guerra a Noi credevamo, forse la più limpida eredità di quella nostra lontana stagione. Però in generale quello di oggi, al netto di effetti speciali, non è un cinema nuovo».

E voi allora sentivate di essere rivoluzionari?
«Non direi proprio. Di quanto era innovativa la nostra poetica ce ne siamo resi conto soltanto in seguito. Casomai sapevamo di voler rinnovare. Basta partire dal famoso luogo comune, sbagliatissimo, che l'idea di girare per le strade e nelle campagne di un Paese ancora ferito dalla guerra e dall'occupazione sia stato necessario perché i teatri di posa erano occupati dagli sfollati».

E non era così?
«Ovviamente no. Fu una scelta dettata dal desiderio, tutto culturale e non ideologico come spesso si è pensato, di vedere come era il paese reale, visto che l'ultima immagine collettiva era legata ai film dei telefoni bianchi».

Molto lontani dalla realtà?
«Scimmiottavano i film americani. Ma quegli interni borghesi e quei vistosi apparecchi telefonici erano più adatti all'opulenta realtà americana piuttosto che alla borghesia del nostro Paese».

Però avete anche introdotto con consapevolezza l'uso dell'attore non professionista.
«Questo sì e fu forse la mossa più coraggiosa e quella che ha segnato maggiormente quel tipo di cinema, anche se Bazin parla soprattutto dei piani sequenza, della mescolanza di generi, e del rapporto fra coro e individuo e grandi paesaggi».

Coraggiosa perché non erano capaci di recitare e costringevano a molti ciak?
«Anche ma non solo. Mi viene in mente soprattutto quanto è successo per Ladri di biciclette. De Sica ha avuto un coraggio da leone a rifiutare l'aiuto della major americana che però voleva per il ruolo del protagonista nientemeno che Cary Grant. Oggi sembra una cosa inimmaginabile. Eppure allora Vittorio si intestardì della sua idea originaria e gli preferì lo sconosciuto Lorenzo Maggiorana. Se non è coraggio questo!»

A proposito di testardaggine. Dopo tanti anni, almeno una quindicina, vedrà finalmente la luce un suo antico progetto.
«Sì. Quest'estate dovrebbero iniziare le riprese di Operazione via Appia tratto dal romanzo di Giulio Andreotti».

Era stata già annunciata nel '98 e poi nel 2004 questa sorta di giallo surreale sulle intercettazioni telefoniche dei servizi segreti nella Roma del biennio 43/45.
«Rispetto all'idea originaria cambierà senz'altro il cast ed è cambiata anche in parte la sceneggiatura».

Insomma è sempre più difficile fare film?
«È sempre stato difficile. Anche negli anni della Hollywood sul Tevere. La gente forse crede che allora era diverso.

Ma per ogni film uscito ce ne sono una decina che sono rimasti nei cassetti».

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