Cultura e Spettacoli

I promessi sposi nordici sono un inno alla fierezza del popolo sovrano

Il romanzo di Laxness, come quello di Manzoni celebra la libertà individuale e quella collettiva

Daniele Abbiati

Un anno fa, di questi tempi il mondo stava già dimenticandosi dell'esistenza dell'Islanda. Perché la nazionale di calcio islandese, che aveva partecipato per la prima volta ai Mondiali, era stata eliminata il 26 giugno. Inoltre il Mondiale era finito il 15 luglio, insieme alla moda del geyser sound, quella specie di rito propiziatorio-saluto che imitava appunto lo sbuffare dei geyser islandesi, e che i tifosi delle altre squadre (e i bambini in spiaggia) avevano adottato per la spettacolarità in stile danza tribale.

Anche nel 2010 il mondo si era ricordato, ma più a lungo, dell'Islanda. E quella volta maledicendola, per colpa del vulcano Eyjafjöll che aveva sparato in cielo una tale quantità di cenere da paralizzare per settimane il traffico aereo in Europa. Meno risalto, sempre nel 2010, aveva avuto la notizia che a Reykjavík le elezioni erano state vinte dal... «Partito migliore». «Besti flokkurinn», in islandese significa infatti «Partito migliore», e il suo leader, Jón Gnarr, diventato sindaco della capitale, da attore comico quale è per professione fece le cose sul serio, anche sfilando vestito da donna al gay pride. Per la cronaca, il Besti flokkurinn si è sciolto come ghiaccio al sole nel giugno 2014. E in questi giorni abbiamo appreso che l'Islanda è il Paese più caro al mondo, per una pizza margherita sono capaci di chiederti 17 euro (e noi ci chiediamo: ma chi va a mangiare la pizza in Islanda?), però la recessione è in agguato.

Un popolo fiero della propria terra e delle sue bizze; che sa ironizzare sui propri limiti e sulle proprie disgrazie; che si prende e si molla senza troppi problemi; che vive l'isolamento con fatalismo; che non ha i numeri (demografici ed economici) per lottare ad armi pari con gli altri; e, soprattutto, del quale gli altri si ricordano in casi particolari oppure (e qui nascono i problemi) quando vogliono sfruttarlo. Insomma, è Gente indipendente, pur essendo stata per secoli sotto il tallone prima della Norvegia e poi della Danimarca. Indipendente persino quando i nuovi dominatori del Novecento, gli Stati Uniti, ne vogliono fare La base atomica. In corsivo abbiamo messo due titoli di Halldór Laxness (Reykjavík, 23 aprile 1902 - 8 febbraio 1998), e in corsivo, per ogni islandese che si rispetti, è da scrivere, sottolineandone la potenza espressiva, l'ironia e il radicamento nella tradizione che risale fino alle antiche saghe medievali, l'intera opera di Laxness, premio Nobel nel 1955. Il quale sta alla letteratura del suo Paese come Alessandro Manzoni sta a quella italiana.

E, a proposito del buon vecchio don Lisander, ecco finalmente in libreria... i promessi sposi islandesi. Non c'è soltanto il curioso parallelismo fra le distanze storiche, con Manzoni che scrive il suo capolavoro circa due secoli dopo i fatti che narra e con Laxness che fa altrettanto, in La campana d'Islanda (Iperborea, pagg. 591, euro 19,50, traduzione e postfazione di Alessandro Storti). E non c'è soltanto, ad accomunare i due autori, il parlare a nuora perché suocera intenda, dove in Manzoni la nuora è la Spagna e la suocera è l'Austria, mentre in Laxness la nuora è la Danimarca e la suocera sono gli Usa, visto che il suo romanzo uscì in tre parti fra il 1943, il '44 e il '46. Come non ci sono soltanto un uomo e una donna che si amano a distanza mentre intorno a loro accadono un mucchio di cose che se ne impipano del loro amore. Perché la Lucia e il Renzo che seguiamo nel libro di Laxness, fra il tramonto del XVII secolo e i primi decenni del XVIII, cioè l'affascinante Snæfríður (letteralmente, «bella come la neve»), figlia di un giudice fin troppo super partes, e il dotto Arnas Arnæus (chiaramente ispirato ad Arni Magnússon, cattedratico all'Università di Copenaghen proprio in quel periodo) che darebbe un braccio per una sola pagina di antico (e inedito) manoscritto, rappresentano due caratteri agli antipodi e proprio per questo funzionali, come Lucia e Renzo, a mettere in moto la colossale macchina affabulatrice. A capo della quale, questo possiamo dirlo, invece del lieto fine domestico troveremo qualcosa di molto diverso...

A mettersi di mezzo fra Snæfríður e Arnas non è qualcuno che li vuole dividere, come sarebbe stato il don Rodrigo di turno, bensì (ed è questa la geniale trovata di Laxness) un poco di buono di pretese molto più basse, Jón Hreggviðsson, che, al contrario, fa da collegamento fra il placido tran tran di lei, scandito da ore di cucito, devozione all'autorevole genitore e gite in vari possedimenti, e la febbrile bulimia da bibliofilo di lui, per il quale il testo della Skalda equivale al Graal per la numerosa truppa della queste andata in scena in altri lidi. Brutto, sporco e cattivo quanto basta, Jón coltiva la memoria di Gunnar di Hlíðarendi, il re-sacerdote della Njáls saga duecentesca, probabilmente la più antica d'Islanda, e assurge anche per Snæfríður quasi al rango di eroe nazionale quando fa secco un boia inviato, ovviamente dal re di Danimarca, fin lassù in Islanda a requisire la campana del titolo, perché il metallo con cui è fatta serve a ricostruire Copenaghen, all'epoca impegnata ogni due per tre in guerre contro la Svezia. La campana in questione scandisce i ritmi dell'Alþingi, la massima istituzione di allora, insieme parlamento e tribunale supremo.

Le vicissitudini di Jón tra una galera e l'altra e tra una fuga in Olanda e una in Germania per sottrarsi, grazie alla decisiva complicità di Snæfríður, alla pena di morte comminatagli dal papà di questa, rubano la scena sia all'intrepida eroina, la quale non potendo sposare il meglio, cioè Arnas, decide di prendersi il peggio, cioè un marito che arriva a venderla per qualche sorso di acquavite, sia all'algido studioso, il quale soltanto sul finale, in occasione di un catastrofico incendio che distrugge la capitale danese dove conserva i suoi preziosi volumi, perde un po' di aplomb.

Se Jón è, nella novecentesca saga di Halldór Laxness, la pancia del popolo islandese, e Arnas ne è la testa, Snæfríður detta «Sole d'Islanda» ne è il cuore, caldissimo a dispetto della neve che ha nel nome.

Un'eroina che ti resta dentro e che l'amor di patria (soltanto letteraria, beninteso) suggerisce di non paragonare a Lucia Mondella.

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