Cultura e Spettacoli

I registi come Giovanna: soffrono di allucinazioni

Leiser e Caurier prima, e dopo, dipingono la protagonista come un'estremista religiosa Ma in scena è molto «verdiana». Un'operazione che non ha fatto danni, ma poco elegante

Nei giorni precedenti la «prima» della Scala abbiamo cercato di esporre per sommi capi la drammaturgia di Giovanna d'arco, a partire dalla ragione politica che spinse Verdi e il suo librettista Solera a scegliere quel soggetto, affinché gli italiani identificassero la lotta di liberazione della Francia lanciata dalla Pulzella d'Orléans con quella dell'Italia, da secoli sotto il giogo di potenze straniere e monarchie illiberali. Abbiamo illustrato gli intenti della messa in scena, dovuta alla coppia franco-fiamminga Leisher&Caurier, che partiva dall'assioma che il libretto originale non fosse comprensibile. Sfuggiva al duo registico come il padre fosse delatore (poi pentito) della figlia, come il sovrano s'innamorasse della Pulzella. Dubbi che misuravano il meldoramma come fosse una pièce teatrale e non un genere dove le ragioni della musica in Verdi soprattutto l'urgenza e la concisione drammatica - hanno il sopravvento su tutto, anche sulla congruenza storico-narrativa. Per ovviare a questo presunto difetto s'è immaginata tutta l'opera come l'allucinazione di un'alienata mentale che crede di essere Giovanna d'Arco...Così il duo registico ha pensato di trovare la quadratura del cerchio non stravolgendo troppo e dando la possibilità di inserire verosimili episodi di guerra, incursioni del soprannaturale (si sopporta anche il costume aureo che trasforma Carlo - VII - di Valois in un Goldfinger medioevale). Per fortuna il tutto è stato condotto senza provocazioni gratuite, senza blasfemie religiose (come annunciato un po' opportunisticamente nel battage mediatico precedente), violenze sessuali o traumi psicanalitici (solo i diavoletti che tormentano Giovanna, pour cause, sono porcelloni con qualche posa da kamasutra nel fondo-scena). E non è poco, dopo tante recenti inaugurazioni della stagione scaligera finite in un oceano di fischi, soprattutto per i responsabili della messa in scena.Il pubblico ha capito (almeno quello che segue la prima nel loggione e nelle gallerie; la maggioranza essendo pervenuta in attesa dell'intervallo per fare la conta dei presenti nell'orgia di convenevoli) che l'operazione, seppure partendo dal preconcetto errato dell'inferiorità della drammaturgia librettistica, era condotta con maggior rispetto dei suddetti precedenti (e la vittoria prima si è compiuta nella musica per merito delle forze musicali). Certo chi non conosceva il libretto è rimasto come i registi alla prima lettura del libretto: non ha capito. Comunque non è obbligatorio che il pubblico pagante faccia gli straordinari per sapere il soggetto di un'opera rara onde capire la genialità delle modifiche registiche; semmai vale il contrario: nulla deve esser lesinato per «raccontare» il verosimile operistico. Su questa china, Leisher&Caurier, infiammati dall'esito dello spettacolo, hanno proclamato di «combattere per la cultura, per il pensiero, per dire che la nevrosi di non accettare gli altri conduce tutta l'Europa a morte». Ma come, l'allucinazione di una donna malata condurrebbe a tanto? Che c'entrano, «il nazionalismo e l'odio che hanno portato a 25 milioni di morti» con la fanciulla di Domrémy di Verdi e Solera? Queste affermazioni suonano inopportune, come il grido di dolore: «l'attualità è entrata nella nostra opera», con esplicito riferimento alle tragedie di Parigi e alle imponenti misure di protezione fuori dalla Scala, e alla vittoria del Front National. Sfruttare la paura minacciando purghe etniche è aberrante; forzare ex post una lettura che non contemplava riferimenti precisi è alquanto deplorevole.

Abbiamo capito: ils sont Leiser&Caurier.

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