Cultura e Spettacoli

"The insult" spiega bene il Medio Oriente e diventa subito un candidato al «Leone»

La «faida» del film di Doueiri è lo specchio delle contraddizioni di una terra

"The insult" spiega bene il Medio Oriente e diventa subito un candidato al «Leone»

Venezia - Comincia tutto come un litigio banale, una grondaia che perde, un atteggiamento sprezzante, una parola di troppo, delle scuse che non arrivano. Il passo successivo sono due costole rotte e infine il tribunale. L'aggredito si accontenterebbe ancora delle scuse dell'aggressore, che accetta invece di riconoscersi colpevole, ma a scusarsi non ci pensa proprio. Il problema è che siamo a Beirut, il «violento», Yasser, è un palestinese, il «non violento», si fa per dire, Toni, è un libanese cristiano e dietro entrambi ci sono risentimenti antichi, quelli che trasformarono il Libano in una polveriera, l'Olp, i campi profughi e la guerriglia, poi Israele, Sabra e Chatila, i massacri, le milizie druse e quelle maronite, la guerra civile. Nessuno, insomma, è disposto a dimenticare e il processo diviene così un fatto politico, che i giornali sfruttano e le opposte tifoserie ideologiche usano come un punching ball: non interessano le ragioni della controparte, ciò che conta è che venga riconosciuta la propria, se è possibile calpestando e umiliando l'altra.

The Insult, di Ziad Doueiri, ieri in concorso, non è solo un film molto bello, splendidamente recitato, teso e avvincente nella sua costruzione: è anche, e soprattutto, una lezione di geopolitica, il racconto dell'eterna questione medio-orientale, i disastri della politica e quelli della guerra, gli odi religiosi e la difficile convivenza fra etnie diverse, un popolo, quello palestinese, senza patria, e una patria, quella libanese, fragile e sempre a rischio di distruzione. «Il Libano dice Doueiri- è una società esplosiva, nel bene come nel male».

A suo modo, la scelta di porre la questione in termini legali è un passo avanti: trent'anni prima, e anche meno, ciascuno si sarebbe fatto giustizia da solo, in modo tanto spiccio quanto brutale. E tuttavia, il tribunale per il palestinese, che pure è un uomo colto, un ingegnere che l'esilio ha retrocesso a capomastro, è nient'altro che un simulacro: forse fosse per lui rinuncerebbe a difendersi, perché sa di aver torto, pur se dentro di se sente di aver ragione. Quanto al libanese-cristiano, vorrebbe che fosse riconosciuto il suo diritto di non essere aggredito nel suo Paese, perché fino a prova contraria quello è il Libano e i profughi son tali adesso, ma quando era bambino erano un esercito combattente che distrusse il villaggio dov'era nato, gli rubarono l'infanzia e l'agiatezza. Era il figlio di un produttore agricolo, ora fa il meccanico.

Ma anche il tribunale non è di per sé un luogo asettico. L'avvocato difensore dell'aggredito è una vecchia volpe nazionalista, quello che difende l'aggressore è sua figlia, che però la pensa in modo diametralmente opposto: sono i palestinesi i più deboli, quelli che nessuno vuole e tutti vorrebbero dimenticare, quelli condannati a pagare in eterno. Così il film si muove su più piani e ciò che alla fine emerge è che la convivenza ha le sue ragioni che la ragione giuridica non conosce. I due irriducibili duellanti hanno bisogno del reciproco rispetto per poter mettere da parte ciò che è accaduto e questo è un qualcosa che un tribunale non può sancire: ha a che fare con la coscienza, l'orgoglio, l'ammissione privata delle proprie debolezze.

Con un cast straordinario di comprimari, The Insult si candida come un film difficilmente dimenticabile, fa capire le psicologie e l'aggrovigliato e complesso meccanismo che le modella e le rende spesso infiammabili, eternamente in bilico, fra dignità e sopraffazione.

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