Cultura e Spettacoli

L'«Autoritratto» di Agamben disegnato da libri e amici

Andrea Caterini

«Vi sono nella vita eventi e incontri a tal punto decisivi, che è impossibile che entrino completamente nella realtà. Accadono, certo, e segnano la via - ma non finiscono mai di accadere». Sono le parole che meglio introducono Autoritratto nello studio (Nottetempo, pagg. 176, euro 18) di Giorgio Agamben, una delle intelligenze più originali d'Italia che ha deciso di raccontarsi attraverso gli studi che ha abitato nel corso della vita. Studi dentro case mai di sua proprietà (a Roma, nell'appartamento che fu di Manganelli, a Venezia, a Parigi, accanto alla casa in cui abitò Wagner), dove si diventa «intimamente stranieri a se stessi». Ma quella estraneità è l'apertura di uno scrigno in cui i sogni, cioè pensieri che divengono immagini, finalmente si esprimono.

La prima foto è del 1966, un giovane e un vecchio filosofo osservano un paesaggio della Provenza, quando Agamben frequentava, insieme ad altri (un inedito René Char giocatore di bocce) il seminario di Heidegger, il quale era reticente a porsi come un maestro e forse era questo, oltre al suo pensiero, ciò che più attraeva Agamben dell'autore di Essere e tempo, se di se stesso, più avanti, può dire di non aver «mai potuto né voluto avere allievi, ma soltanto amici». Ed è la convinzione di chi preferisce essere libero dentro la propria ricerca. Il metodo attraverso cui Agamben si ritrae, in questo libro, è un autoritratto per interposta persona: «un essere che si genera solo a partire da altri». Qui incontriamo Giorgio Caproni, il poeta che più ha ammirato (e di cui curò, dopo la morte, la raccolta Res amissa), «un uomo dall'apparenza semplice e dimessa» ma che ha narrato «esperienze inaudite», il quale gli fa dono del manoscritto di una poesia e gli racconta il suo sogno ricorrente di smarrimento; e Elsa Morante, nelle cui grazie non era semplice entrare, narra che una notte, tormentata dall'idea del suicidio, fu salvata da una lunga telefonata con Bazlen; poi Italo Calvino, con cui progetta una rivista che mai si realizzerà; infine Manganelli e Ingebor Bachman, dei quali rimane l'amarezza d'averli incontrati troppo presto, quando non era ancora giunto il tempo per comprenderli.

Ma, dietro incontri e amicizie, Agamben non smette di esprimere non già il suo pensiero, ma quello che lo sottende o lo precede, ovvero il suo amore per lo studio.

E se è vero, come scrive, che «si conosce qualcosa solo se lo si ama», questo libro è, alla fine di tutto, un'attestazione di fedeltà: all'amicizia, al desiderio e alla necessità di conoscenza, a ciò che si è sognato di essere.

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