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L'alcol non fa bene (ma forse aiuta a scrivere meglio)

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L'alcol non fa bene (ma forse aiuta a scrivere meglio)

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Massimiliano Parente

Non so se vi ricordate di un ubriacone, Brick, che viene chiamato dal padre, Bid Daddy, per fare due chiacchiere, e Brick gli risponde «Vado a fare una gitarella a Echo Spring». È una scena de La gatta sul tetto che scotta di Tennesee Williams, e Echo Spring è l'armadietto degli alcolici, che deve il nome alla marca di bourbon che ci era custodito.

Olivia Laing è una scrittrice inglese di cui è appena uscito in Italia Viaggio a Echo Spring (il Saggiatore), che si immerge nel torbido mondo degli scrittori alcolisti, in particolare quelli americani. Diciamo quasi tutti: da Tennesse Williams a William Faulkner, da Truman Capote a Patricia Highsmith (Lewis Hyde, nel suo saggio Alcohol and Poetry, osserva come «su sei americani che hanno vinto il Nobel per la Letteratura, quattro erano alcolisti»).

In un'intervista per la Paris Review del 1981 Tennesse Williams (campione di alcolismo), afferma: «Gli scrittori americani hanno quasi tutti problemi con l'alcol, perché nella scrittura c'è molta tensione. Ora devo moderarmi, guarda come sono pieno di macchie». Olivia Laing è interessata al ruolo dell'alcol nella vita di chi ha prodotto capolavori: via di fuga, terapia per ansia sociale, un mezzo per autodistruggersi, ma anche iniettarsi «del sangue nuovo, la stessa sostanza di cui sono fatti i sogni», sempre parole di Williams.

Tra i più fragili c'era Francis Scott Fitzgerald, frustrato da molti fallimenti editoriali, che a un certo punto smette di bere, o almeno così afferma, perché non bere niente per lui significava solo rinunciare a bere gin, sostituendolo con venti birre al giorno. Fidato compagno di bevute di Ernest Hemingway, il quale però prese a disprezzarlo, perché a un certo punto non reggeva l'alcol quanto lui, e bastava - parole di Hemingway - qualche calice di vino «per trasformare Scott in un deficiente». Invece l'autore di Addio alle armi si vantava di poter «bere quantitativi infernali di whiskey senza sbronzarmi».

John Cheever passò la vita in un andirivieni dagli ospedali, a causa dei problemi connessi all'alcol, senza mai riuscire a venirne fuori. «La mia memoria è piena di buchi e di crateri. In chiesa, in ginocchio di fronte all'altare, vedo, con forza devastante, quanto sono dipendente dall'alcol». Amnesie da cui era affetto anche un altro grande scrittore, Raymond Carver, il fondatore del minimalismo. Nel 1983 dichiarò alla Paris Review: «Verso la fine della mia carriera di alcolista, ero del tutto fuori controllo, una situazione molto grave. Capita di andare in macchina, fare una lettura, tenere una lezione, ricomporre una frattura alla gamba, andare a letto con qualcuno, e poco dopo non ricordare niente di tutto ciò».

Tuttavia resta sempre una domanda: che ruolo ha avuto l'alcol nella scrittura, o nell'ideazione di molti capolavori? Per Hemingway era una necessità: «Io bevo da quando avevo quindici anni e ci sono poche cose che mi danno altrettanto piacere. Quando lavori duro tutto il giorno con la testa e sai che devi lavorare altrettanto il giorno dopo, cos'altro può cambiarti le idee e farle correre a un livello diverso più del whisky?». Certo, è l'alibi che si darebbe qualsiasi alcolista, ma d'altra parte stiamo parlando di grandi scrittori, non di alcolisti anonimi, e concluderla con discorsi salutisti serve a poco. È come pensare che Marcel Proust avrebbe dovuto curarsi l'asma anziché rinchiudersi in una stanza polverosa.

Avrebbe vissuto dieci anni di più, ma non avremmo avuto la Recherche.

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