Cultura e Spettacoli

Dopo l'assurdo, tornare alla tragedia è un'impresa «Ai limiti dell'impossibile»

Joyce Carol Oates vede in Cechov l'anticipatore di un nuovo linguaggio

Ascolta ora: "Dopo l'assurdo, tornare alla tragedia è un'impresa «Ai limiti dell'impossibile»"

Dopo l'assurdo, tornare alla tragedia è un'impresa «Ai limiti dell'impossibile»

00:00 / 00:00
100 %

Massimiliano Parente

Se non ci fossero le passioni non ci sarebbe vita, ma neppure la tragedia, tanto nella vita quanto nell'arte, basti pensare alle tragedie greche. Tuttavia la tragedia, per poter esistere, ha bisogno anche dell'idea di un ordine superiore con cui confrontarsi, in altre parole una speranza trascendente, metafisica. Ma cosa resta della tragedia nel momento in cui l'ordine superiore non esiste più, in cui tutto l'Universo è una terrificante macchina del caos? George Steiner aveva scritto: «La tragedia è quella forma d'arte che richiede l'insopportabile fardello della presenza di Dio. È morta perché la sua ombra non avvolge più gli uomini come era solito accadere per Agamennone, Macbeth o Atalia».

Eppure la tragedia, con gli scrittori più moderni, si è trasformata, puntando a rappresentare proprio il non senso dell'esistenza. Ci ha ragionato in modo molto preciso Joyce Carol Oates, grandissima scrittrice, nel suo saggio del 1972 pubblicato adesso in Italia dal Saggiatore e intitolato Ai limiti dell'impossibile. Cos'è rimasto della tragedia dopo la fine della tragedia? Tutti i più importanti scrittori sono tragici (e spesso, di conseguenza, anche comici), ma la tragedia moderna, dopo la fine della tragedia, punta dritta alla rappresentazione del non senso. Perfino dove c'è ancora in apparenza una metafisica, come per esempio in Herman Melville, eppure la lotta di Achab contro la balena è più una metafora della vana lotta contro la natura che non contro le forze del male contrapposte a quelle del bene.

Si arriva presto all'esistenzialismo di Sartre o Camus, dove il mondo diventa incomprensibile, e al teatro dell'assurdo, dove perfino il teatro non ha più ragione di essere, e diventa teatro nel teatro, teatro dell'impossibilità del teatro. Ma gli esistenzialisti Sartre e Camus rispettano ancora un linguaggio tradizionale, mentre la Oates ci fa notare l'assoluta avanguardia di Cechov nell'anticipare proprio il teatro dell'assurdo. Non c'è climax, non c'è catarsi, le parole non esprimono più gli obiettivi dei personaggi, le azioni sono anch'esse scollegate dai fini. «I personaggi di Cechov si muovono in una direzione che è più una devastazione delle illusioni che un progresso». Il mondo di Cechov è già una macchina incontrollabile, governata dal caos e dal non senso, come in seguito sarà nella letteratura di Ionesco, basti pensare ai dialoghi, totalmente assurdi, eppure proprio per questo significativi, della Cantatrice calva. «Non basta integrare, bisogna disintegrare. È la vita. È la filosofia. È la scienza. È il progresso, la civiltà». Una civiltà che deve prendere atto della propria insensatezza, della propria realtà priva di un ordine. Togliere il velo all'apparenza, per scoprire che dietro l'apparenza c'è il nulla, e «la realtà è soltanto un insieme di insignificanti inezie». L'oggetto delle opere di Ionesco è la rappresentazione della tragedia del linguaggio. Non c'è più nessuna ricerca della verità, la verità è il nulla, il non senso.

Se la tragedia classica, per prendere forma, aveva bisogno di personaggi unici, ora nessun personaggio può esserlo, tutti sono uguali, tutti sono indifferenziati, tutti vanno incontro a qualcosa di ineluttabile, contro la quale non si può combattere.

Che a ben vedere è la visione fisica e biologica moderna, è la morte in un universo governato dall'entropia, e senza più alcun finalismo (siamo un battito di ciglia tra il Big Bang e la morte termica).

Commenti