Cultura e Spettacoli

L'esempio Sampietro e la necessità (oggi) della critica «militante»

Andrea Caterini

Per chi abbia l'abitudine, come me, di frequentare mercatini, a caccia di qualche buon libro da portare a casa non un libro in particolare che stavamo cercando, ma quello che non ci si aspetta mai di trovare , sa che spesso, tra la polvere e qualche fioritura delle pagine, spunta fuori il ritaglio di un articolo di giornale. La domanda che mi pongo ogni volta è: il vecchio proprietario ha comprato il libro dopo aver letto la recensione del critico, oppure ha comprato prima il libro e poi, leggendo la recensione, ha deciso di conservarla come una sorta di postfazione fuori testo? Può sembrare una domanda scema, eppure l'interrogativo nasconde un ragionamento alla base di un lavoro critico svolto su un quotidiano. Ogni critico sa che la discussione stessa di un libro su un quotidiano è qualcosa di tanto immediato da risultare, in poche ore, obsoleto. Ovvero: ogni critico sa che la sua «militanza» sia esso un esperto di letteratura contemporanea italiana, francese, inglese, statunitense, sudamericana ecc. contiene di per sé anche una quota di dissipazione inevitabile. Il suo ragionamento durerà l'arco di un giorno, poi sarà gettato via nella differenziata.

Ma la questione mi porta a domandarmi un'altra cosa e che riguarda nello specifico una critica militante fatta oggi, e non cinquant'anni fa. Oggi che la critica pare delegittimata del suo ruolo; che è mal digerita dalle stesse terze pagine dei quotidiani; che è spesso sostituita da spot pubblicitari giudizi e gusti suggeriti, si direbbe, più dagli uffici stampa che dal proprio intuito, dalla propria capacità di comprensione di un testo, dalla propria visione. Poi, esistono ancora dei lettori delle terze pagine che non siano gli addetti ai lavori? E se sì, quali articoli scelgono di leggere? Si affidano ancora a una firma di fiducia?

Luigi Sampietro, raccogliendo un'ampia scelta di suoi articoli usciti nell'arco di 25 anni sul «Domenicale» del Sole 24 Ore (in La passione della letteratura, Aragno, pagg. 776, euro 40; premessa di Stefano Salis), introducendo il volume, scrive che «oltre a quello di conversare con il lettore, il mio compito era di fornirgli un resoconto, proprio come se arrivassi in quel momento in salotto da una spedizione dietro l'angolo». Sampietro ha insomma un'idea della critica militante, e d'occasione, «servile» (per usare un termine caro a Cesare Garboli). Cioè, il critico ha per lui una funzione specifica, quella appunto di raccontare un'esperienza («un resoconto») di lettura. Tanto più il suo racconto sarà stato convincente e persuasivo, tante più probabilità ci saranno che un lettore si convinca che quel libro vada letto. È chiaro che l'idea di Sampietro, come quella di molti, è che la critica abbia un ruolo di subalternità, se vogliamo di servizio per lo scrittore da una parte e per il lettore dall'altra. Il suo è prima di tutto un lavoro di mediazione.

Ma è sufficiente questo oggi, in una situazione editoriale tanto sovrabbondante, in cui i principi stessi di selezione si sono perduti nell'allucinazione delle novità? Da parte mia ho sempre creduto che fare critica sia un atto di fede. Cosa voglio dire? Che nonostante si sia perduto qualsiasi ruolo di mediazione, nonostante la sovrabbondanza e la dissipazione, credo ancora che la letteratura sia un'esperienza assoluta della vita, quindi necessaria; e soprattutto che questa esperienza sia un lavoro con se stessi quotidiano (in questo senso immagino la «militanza»).

È questa forma di fedeltà che, scrivendo di quello che ho letto, desidero ancora e nonostante tutto esprimere solo raccontando la nostra necessità saremo capaci di trasmettere ad altri la necessità del libro che ce l'ha generata.

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