Cultura e Spettacoli

La lezione di Eastwood: "Ma quali misteri sul set ci vuole solo emozione"

La leggenda Clint "insegna" cinema: "Questi tempi sono strani, bisogna raccontarli"

La lezione di Eastwood: "Ma quali misteri sul set ci vuole solo emozione"

Da Cannes

Dall'alto della sua statura, più di un metro e ottanta, della sua età, ottantasette anni fra pochi giorni, e della sua carriera (non si contano film e oscar...), Clint Eastwood saluta l'ovazione del pubblico in sala con il sorriso allegro di chi sa ancora stupirsi. Indossa un giacchetto di pelle blu chiaro, pantaloni blu scuro di cotone, sneakers, un cappello da baseball fra le mani e sembra il protagonista di Gran Torino. «I francesi sono pazzi dice con la sua voce bassa e un po' rauca - per questo mi piacciono. Gli devo molto, una Palma d'oro alla carriera, la Legion d'onore, una presidenza di giuria qui a Cannes... Non potevo dire di no».

Il Festival gli ha reso omaggio con la proiezione della copia restaurata di Gli spietati, del 1992, e ora è come se lui volesse sdebitarsi con questa «lezione di cinema», la lezione di uno che, dice il gran cerimoniere della Mostra Thierry Frémaux, «è una leggenda». A intervistarlo c'è il critico del Los Angeles Times, e la conversazione spazia lungo tutta la sua carriera e si capisce subito che non sono mai stati i generi in quanto tali a interessarlo. Certo, il western, con cui la sua carriera ebbe inizio («mi piacevano tutti, da John Wayne a Gary Cooper, a Jimmy Stewart, ai b-movies»...) e che poi lo lanciò, ha una parte a sé, ma proprio perché riassuntivo di una certa idea della vita: c'è l'individuo, c'è la solitudine, ci sono i buoni e i cattivi, ma non è facile distinguere gli uni dagli altri... Proviamo a vedere allora, con il suo aiuto, che cosa tutto ciò significa.

Partiamo proprio da Gran Torino, «uno dei miei preferiti» dice. Racconta di un vecchio operaio della Ford, Walt Kowalsky, che vive come asserragliato nel suo villino monofamiliare. Si farà ammazzare per salvare un ragazzo hmong, la cui anima orientale è più vicina, per tradizione, gerarchia, regole, al suo modo di sentirsi americano, di quanto non sia il Paese che intanto gli è cresciuto intorno e il cui simbolo è ormai la «Pussy Generation», la generazione fighetta. Quella per i quali i vecchi sono un peso, l'identità sessuale un optional, l'etica del lavoro una barzelletta. «Pussy Generation» è puro succo del pensiero di Eastwood, e comprende anche il suo giudizio su quei «registi isterici sul set e che si circondano di mistero, nemmeno facessero gli agenti segreti... Gran Torino racconta la diversità e il rapporto con chi è diverso da noi, ma ha con noi più punti di contatto di chi pensiamo sia invece eguale a noi»...

Da più di un trentennio, da quando cioè smise i panni di Callaghan, Eastwood ci ha dato alcuni dei più bei film della cinematografia Usa. Quello che però allora non si capì, o si volle fare finta di non capire («oltretutto il politically correct non ha mai avuto il senso dell'umorismo») è che fra quel primo Eastwood e l'ultimo ora ricordato, non c'era differenza: lo sguardo di Kowalsky sul mondo è altrettanto intransigente della sua incarnazione poliziesca. È cambiata solo la compassione, un portato della maturità.

Eastwood, insomma, non ha mai smesso di dire che il potere non coincide con l'autorità e che l'individuo viene prima del collettivo. Per lui, un uomo che si rispetti risponde alla propria coscienza prima che a una struttura o a una ideologia e spesso le azioni sono più importanti delle parole.

Se si volesse andare più a fondo, bisognerebbe anche dire che da Million Dollar Baby a Flags of Our Fathers a Lettere da Iwo Jima («sono quelli che amo di più»), passando per Gli spietati e Mystic River, Clint Eastwood è andato delineando e raccontando un'altra America, dove il pacifismo è un'astrazione retorica, la dignità non ha prezzo, codici e confini sono necessari, il rispetto per gli altri nasce soprattutto dal rispetto per se stessi e spesso si dà senza chiedersi se in cambio si riceverà qualcosa. «In Lettere da Iwo Jima c'erano queste lettere del comandante giapponese che avrebbe potuto scrivere un americano: il sacrificio e la tristezza del morire, l'assenza di speranza e il senso del dovere».

Di là dalla bellezza artistica, i film di Clint Eastwood raccontano insomma un modo di essere, di esistere, di credere, rimandano a una effettuale realtà, americana e no, delle cose che un certo pensiero egemone continua a derubricare a residui passivi di ideologie sconfitte e/o passate di moda. «Sto pensando di fare un film dal libro in cui si racconta il fallito attacco sul treno francese nell'agosto di due anni fa, la storia dei tre americani che misero fuori combattimento il terrorista. Viviamo in tempi strani, e bisogna raccontarli». Quando alla fine gli viene chiesto che cosa conti di più nel girare un film, risponde che è «l'emozione. Se ti emozioni mentre leggi una sceneggiatura, mentre dirigi gli attori, mentre riprendi con la macchina da presa, allora verrà fuori un bel film». Poi sorride e aggiunge. «Però non bisogna mai prendersi troppo sul serio.

Prendersi sul serio è la cosa più pericolosa del mondo».

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