Cultura e Spettacoli

"Louisiana (The Other Side)"

L'America difficile, lontana dalle metropoli e invisibile ai più, raccontata magistralmente in un documentario firmato da un nostro connazionale

"Louisiana (The Other Side)"

Dopo la "trilogia sul Texas", Roberto Minervini, marchigiano residente da quindici anni in America, firma quello che può definirsi il suo primo documentario politico, "Louisiana (The Other Side)", appena presentato al festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. Si tratta di un'opera pura, diretta e destabilizzante. Le riprese sono state effettuate nel nord della Louisiana, dove la disoccupazione è al 60% e la maggior parte delle persone vive alla giornata, dimenticata da Dio e dalle istituzioni. La prima parte è dedicata a Mark, un giovane uomo che produce e vende anfetamine di cui è anche un assiduo consumatore, come la sua ragazza, Lisa. Mark sta attraversando un periodo drammatico: ha appena perso il fratello e si accinge a veder morire la madre di cancro. Conscio di aver imboccato nell'uso di sostanze una via senza ritorno, ha già progettato di farsi arrestare per tentare, in tal modo, di salvarsi la vita. Nel frattempo, trascorre i suoi giorni tra derelitti e arresi, come la ballerina di night che, in stato di gravidanza avanzata, si inietta una dose prima di esibirsi sul palco. Anche vedere Lisa che si fa trafiggere i seni dall'ago della siringa non è scena da poco. Eppure, nonostante gli stenti materiali e la routine della dipendenza da droga, ci sono ancora l'amore e la solidarietà a dare senso alla vita di chi si trova in situazioni del genere.

Molti di loro conoscono solo stati alterati di coscienza e non possono permettersi neanche il lusso di sognare una via d'uscita, ma sanno ancora cosa sia la tenerezza e vi cercano rifugio. Nella seconda parte del documentario invece l'attenzione si sposta su una comunità di paramilitari, veterani in disarmo, per i quali la libertà più sacrosanta e inalienabile è quella di possedere armi. Anche loro si sentono emarginati e traditi dal proprio paese. Fantasticano di un'imminente rivoluzione che li vedrà pronti e addestrati a difendere i loro cari. Inneggiano contro Obama e non disdegnano di umiliarne l'immagine facendone indossare una maschera a una prostituta o dedicandogli scritte offensive su una macchina da far poi saltare in aria. E' nell'entroterra che si giocano di volta in volta le presidenziali, anche in luoghi come questo. L'ora e mezza di visione proposta al pubblico è il distillato di un materiale di partenza vastissimo, centinaia di ore di girato. Il regista ritrae i protagonisti da vicino, in una prossimità che è quasi intimità, ma mantiene la distanza da qualsivoglia giudizio nei loro confronti. Si è inserito nella comunità conquistandone la fiducia e si è prestato a raccogliere il sentimento di rabbia degli abitanti. Alcuni hanno voglia di urlare la propria sofferenza, altri hanno un sentimento di rivalsa, di sicuro tutti desiderano essere ascoltati. Non importa che poi in realtà intendano che si presti attenzione soprattutto ai loro lunghi silenzi, perché raccontano più quelli, accompagnati da sguardi e gesti inequivocabili, di mille parole. Da spettatori ci si sente spesso a disagio e si viene messi alla prova dalla visione di scene violente, a volte un po' morbose, ma si tratta di un'esperienza utile alla comprensione di una parte d'America di cui altrimenti avremmo continuato ad ignorare l'esistenza: un girone infernale di gente allo sbando che trascorre le sue giornate tra illegalità e anarchia.

Minervini toglie il velo su uno dei molti microcosmi sociali che costituiscono il volto oscuro della più grande potenza mondiale.

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