Cultura e Spettacoli

Ludovica Carbotta costruisce la città ideale: "È ricerca ed emozione"

Ludovica Carbotta costruisce la città ideale: "È ricerca ed emozione"

«Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più di avere: l'estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più ti aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti». Le immagini oniriche descritte da Italo Calvino nelle Città invisibili fanno da sfondo o forse sono il convitato di pietra dell'opera di Ludovica Carbotta, torinese classe 1982, una delle due sole artiste italiane selezionate dal curatore americano Ralph Rugoff per la 58ª Biennale veneziana (l'altra è la «veterana» Lara Favaretto).

Sul molo silenzioso dell'Arsenale e nella polveriera di Forte Marghera campeggiano due installazioni che fanno parte del progetto Monowe, un work in progress partito nel 2016 che vede l'artista impegnata nella costruzione di una città ideale, un modello urbanistico pensato per un solo abitante. Architetture impossibili che saturano l'ambiente, assemblate di oggetti che paiono reperti di un'umanità giunta quasi all'estinzione da catastrofi ambientali o forse da un narcisismo distruttivo. Nella città ideale (o infernale?) della Carbotta, già presentata il mese scorso nelle sale di Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, ci sono tutti i simulacri della società civile le cui funzioni appaiono tuttavia trasfigurate o rese paradossali: la grande porta d'accesso alla città di rinascimentale memoria, la fabbrica, il museo, la torre di guardia e persino il Tribunale, «materializzazione della colpa e del giudizio, palcoscenico in cui si svolge il processo surreale al concetto stesso di giustizia e che vede collassare tutti i ruoli in uno solo: accusato e accusatore, testimone e giudice».

A Venezia l'artista si presenta al pubblico internazionale con grandi sculture composte da materiali più disparati, dal cemento alle resine, opere che sembrano voler evocare la solitudine dell'uomo contemporaneo. «Le chiavi di lettura - dice l'artista al Giornale - possono essere diverse. Oggi l'arte deve far riflettere, deve spingere l'uomo a interrogarsi sul presente, sulla propria storia e sulle contraddizioni della società; al contempo deve emozionare, e l'emozione può derivare dalla riflessione, ma anche da un processo di ricerca estetica. Questo è ciò che forse ci differenzia dall'arte concettuale degli anni '70: le mie opere hanno sempre un intento narrativo e la ricerca dei materiali, dalle gomme al legno, contribuisce all'empatia con lo spettatore». Ludovica non nasconde l'emozione per essere stata eccezionalmente prescelta da Rugoff, e la sua storia appare esemplificativa dei meccanismi che sottendono alla carriera di un giovane artista anche in Italia.

«Oggi - spiega - per accedere a un palinsesto internazionale come la Biennale di Venezia è fondamentale viaggiare e studiare. Nel mio caso, una borsa di studio mi ha permesso di accedere a un master importante a Londra, dove ho vissuto per quattro anni confrontandomi con artisti e curatori internazionali. L'incontro a Torino con Patrizia Sandretto Re Rebaudengo e l'accesso alla Fondazione dove ho inaugurato la mia personale hanno poi dato un contributo fondamentale. Oggi gli staff dei grandi curatori come Rugoff si appoggiano alle istituzioni internazionali che spingono i nuovi talenti e promuovono residenze per i giovani artisti. Ma certo, quando mi è arrivata la mail di Rugoff in cui mi diceva che ero stata scelta per la sua mostra di Venezia ho dovuto rileggerla più volte, perché non ci credevo...

».

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