Cultura e Spettacoli

L'umanità al lavoro si mette in mostra

Installazioni, reportage, immagini: un'indagine sui valori del mondo contemporaneo

L'umanità al lavoro si mette in mostra

In un'epoca di arti sempre più globalizzate, capita sovente che i luoghi più interessanti da visitare siano le fondazioni private: collezioni, case museo e addirittura musei di impresa che sorgono dove meno te li aspetti. Uno di questi è nato tre anni fa in un ex area industriale alla periferia di Bologna, per iniziativa della Gd, azienda leader nella produzione di macchine impacchettatrici. La cittadella trasformata dagli architetti Claudia Clemente e Francesco Isidori ospita la Fondazione Mast - Manifattura di arti, sperimentazione e tecnologia - e ha l'obbiettivo di promuovere spunti di riflessione sui rapporti tra arte, cultura e il mondo del lavoro. Con un occhio privilegiato verso le nuove tecnologie di produzione. Un tema, questo, al centro della mostra di videoarte da poco inaugurata dal titolo Lavoro in movimento.

Sottotitolo della mostra è «Lo sguardo della videocamera sul comportamento sociale ed economico», e condensa il viaggio di 14 artisti internazionali sui mutamenti del mondo del lavoro su scala globale e sui conseguenti riflessi sulla vita dei singoli, della collettività e persino dell'urbanistica. Quello del curatore svizzero Urs Stahel è un esperimento decisamente felice di progetto site specific - siamo effettivamente immersi nel genius loci post-industriale - e rende giustizia alla decodificazione di un genere, la videoarte appunto, da sempre in bilico tra ricerca dell'immagine, reportage, installazione e concettualismo. In questo caso, il fil rouge narrativo scorre fluidamente tra i progetti degli artisti, ognuno dei quali prova a cogliere un aspetto differente dell'homo faber contemporaneo. Poesia e cronaca si fondono, tra luci e tante (tantissime) ombre. Come nei 90 reportage di Harun Farocki e Antje Ehmann che, ispirandosi a La Sortie de l'usine Lumière à Lyon dei fratelli Lumière, hanno filmato in un unico piano sequenza le azioni lavorative individuali in 15 metropoli. Gesti e ritmi di lavoro di un'umanità anonima spesso ritratta in «non luoghi» si sovrappongono all'esperienza soggettiva di vere case history; come nel caso dell'opera di Ali Kazma che mette in distonia il lavoro manuale nelle officine Alessi e la produzione ipertecnologica in uno stabilimento Audi. O come la filmaker tedesca Eva Leitolf che indaga il rapporto tra fabbrica e città prendendo spunto dalla Volkswagen di Wolfsburg.

Dai video trascende l'analisi spietata di una società condizionata dalla provvisorietà di quella che Bauman definì la società liquida, passata dal fordismo alla deregulation. Ciò che valeva ieri, oggi non vale più, e su ciò che vale oggi aleggiano inquietanti presagi. L'artista cinese Chen Chieh-jen mette in scena in un capannone abbandonato le impiegate che vi avevano lavorato per più di 20 anni prima di rimanere vittime della debacle dell'industria tessile taiwanese. In Permanent error, invece, il sudafricano Pieter Hugo racconta ciò che accade nella discarica di rifiuti tecnologici di Agbogbloshie, capitale del Ghana, uno dei luoghi più inquinati del mondo.

Immagini da day after che pongono agghiaccianti interrogativi sui valori di economia, produzione e senso dell'umanità.

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