Cultura e Spettacoli

L'uomo qualunque ucciso per sbaglio negli anni di piombo

Kerbaker ricostruisce la storia di un pensionato morto in uno scontro di piazza nel 1972 e dimenticato da tutti perché non era né fascista né «compagno»

L'uomo qualunque ucciso per sbaglio negli anni di piombo

La guerra civile che si combatté in Italia tra il 1969, inizio degli «anni di piombo», e i tanto vituperati ma splendidamente pacifici anni Ottanta, lasciò dietro di sé, nei 14.615 attentati compiuti nel Paese, 428 morti e oltre mille feriti. Manifestanti, terroristi di destra e di sinistra, uomini delle forze dell'ordine, giudici, politici, giornalisti... E gente comune.Ecco. La memoria collettiva, le inchieste, i libri di storia, i convegni, le targhe commemorative, i tanti libri dei «figli di...» (da Calabresi a Tobagi), tutto ciò ricorda i caduti dell'una o dell'altra parte: come il giovane attivista del Fronte della gioventù Sergio Ramelli, come il poliziotto Antonio Marino, come il giudice Emilio Alessandrini, come i leoncavallini Fausto Tinelli e Lorenzo «Iaio» Iannucci... O come le vittime delle stragi, i cui nomi sono scolpiti sul marmo, da piazza Fontana alla stazione di Bologna. Ma chi, rimanendo nel mezzo, cadde morto per pura «distrazione», da solo, del tutto estraneo alla politica e agli scontri ideologici, sparì completamente. Ignorato dalle cronache di allora, dimenticato dalla Storia che si scrisse dopo. È l'altra faccia, nascosta, di una stagione di violenza fuori da ogni logica che non è del tutto archiviata, e che non potrà esserlo finché si continueranno a celebrare i morti eccellenti dimenticando le vittime anonime, simbolo di una maggioranza silenziosa e magari indifferente, tenuta in ostaggio per un decennio da una minoranza tumultuosa e fanatica.Andrea Kerbaker nel reportage storico La rimozione (Marsilio, pagg. 126, euro 15) racconta la vicenda, tragica e esemplare, di un cittadino al di sotto di ogni rispetto, capitato nella piazza sbagliata in un pomeriggio da cani, ucciso per fatalità dal piombo impazzito. Senza che alcuno ne abbia perpetuato la memoria. Non lo Stato, che avendone causato la morte aveva tutto l'interesse per farlo dimenticare. Non la destra o la sinistra, perché non apparteneva né all'una né all'altra. Non i giornali e le tv, perché un passante ammazzato «per sbaglio» non fa notizia (persino per la controinformazione della sinistra extraparlamentare, pronta allo sdegno soltanto quando il morto è un compagno).Ora però la «Storia di Giuseppe Tavecchio, vittima dimenticata degli anni di piombo», sottotitolo del libro di Kerbaker - uno scrittore convinto che molti nodi insoluti del presente vadano ricercati negli interstizi di quel caotico periodo della storia d'Italia - torna finalmente alla luce, a onore della vittima e a discredito di chi l'ha consegnata all'oblio.Ma chi era Giuseppe Tavecchio? Era un signor nessuno, un tranquillo pensionato, sessantenne, che l'11 marzo 1972 stava per attraversare la strada, cappotto, cappello e un pacchetto della spesa in mano, all'incrocio tra via Manzoni e piazza della Scala, a Milano. Quel giorno il centro della città è messo a ferro e fuoco. Da una parte manifestanti della sinistra rivoluzionaria, che attaccano in via Solferino la sede del Corriere della sera, giornale troppo borghese sotto la direzione di Giovanni Spadolini (che lascerà la poltrona due giorni dopo), dall'altra reparti di polizia in assetto di guerra. In mezzo agli scontri, un fotoreporter scatta a ripetizione e riprende tutto. Il lancio delle molotov. Le autocolonne della Celere. Le auto messe di traverso. Un militare sulla jeep con il candelotto lacrimogeno inastato sul moschetto. Addirittura - in una fotografia agghiacciante - Giuseppe Tavecchio una manciata di secondi prima della morte, fermo al semaforo.Poi la tragedia. L'uomo è a terra in una pozza di sangue. Viene portato d'urgenza al Policlinico (mentre i figli vengono interrogati malamente sul perché il padre fosse lì, in mezzo ai «comunisti», da un giovane commissario antipatico, Luigi Calabresi). E morirà tre giorni dopo, senza riprendere conoscenza. Ciò che è accaduto lo ricostruirà il processo: un agente di Polizia, su ordine di un ufficiale, spara un lacrimogeno ad alzo zero colpendo Tavecchio alla testa. Secondo una versione mai accreditata, l'uomo sarebbe stato invece colpito da infarto, sbattendo la testa sul pavé. Ma in fondo come è morto è meno importante di ciò che accade dopo la sua morte. I media ignorano la cosa (già il 14 marzo, tre giorni dopo, i giornali hanno altro di cui occuparsi: sotto un traliccio di Segrate viene trovato il cadavere di Giangiacomo Feltrinelli...), i partiti se ne disinteressano e le istituzioni disertano i funerali. Quando, anni dopo, si concluderà il processo (condannati in primo grado, l'agente che sparò e il capitano che diede l'ordine saranno assolti in appello), la rimozione di Tavecchio dalla storia del Paese è definitivamente sancita.Andrea Kerbaker, con un libro rigoroso dal punto di vista storico-documentale (l'autore ha lavorato un intero anno, andando a cercare i figli della vittima, spulciando tutte le cronache dell'epoca, incontrando i vecchi avvocati...) e fortemente letterario nella scrittura (che cita una vicenda processuale kafkiana, la Milano di Montale, i film di Petri e Rosi), facendo giustizia a nome di tutti, ci riconsegna intatta, questa volta a perenne memoria, la vicenda esemplare di un uomo qualunque.

Al quale, per essere morto senza difendere alcun ideale, nessuno dedicò mai neppure una lapide.

Commenti