Cultura e Spettacoli

La Macchina di Santa Rosa

L'estasi della tradizione si ritrova nel ritorno alle radici

Emanuele Ricucci

Trenta metri di campanile, un palazzo di dieci piani. Una torre illuminata portata a spalla da cento uomini nelle buie vie del quartiere medievale più grande d'Europa, sotto il cui peso, a tempo di marcia, la fatica plasma un sentimento nuovo, quello dell'amore viscerale di una terra per la sua Santa, per la propria identità. Ogni anno Viterbo, la città che ha visto nascere il Conclave, esplode in un rito collettivo. È inutile filosofeggiarle innanzi. Essa è lì, ferma ad offrirsi, come baluardo della sua gente. Uno choc estatico. Ad ogni «mossa», quel «sollevate e fermi» spezza il fiato a tutti, è la conferma della propria essenza comune. La prova, il segnale. Gloria, figlia dell'architetto Raffaele Ascenzi e di Luigi Vetrani. Gloria, la Macchina di S. Rosa, Patrimonio immateriale dell'umanità Unesco, è pronta a partire questa sera, in Piazza S.Sisto, nel cuore di Viterbo, in viaggio verso la trasmissione intergenerazionale, di facchino in facchino così come sono chiamati i cento devoti trasportatori scelti tra i più forti viterbesi -, di famiglia in famiglia. Per ammirarla si sono succeduti a Viterbo, Pontefici Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, alte cariche dello Stato, presidenti del Consiglio e leader di partito, celebrità. Estasi. Moto di tradizione, continuità; radice che collega lo spirito agli uomini, anche in tempi in cui la disconoscenza verso il Divino e l'idolatria del materialismo sembrano essere l'unica strada percorribile verso il progresso. Un evento che affonda le proprie radici nel medioevo. Il trasporto della Macchina di S. Rosa è ben più di un evento italiano.

È una testimonianza di fede incondizionata, è frazione di spazio e di tempo capace di sopravvivere al relativismo, di superare abilmente la dicotomia tra sacro e profano.

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