Cultura e Spettacoli

"La madre non c'è più. L'utopia dell'uguaglianza la vuole cancellare"

La storica: "Con l'utero in affitto la maternità è diventata un prodotto sul mercato"

"La madre non c'è più. L'utopia dell'uguaglianza la vuole cancellare"

Lucetta Scaraffia, storica e studiosa cattolica, perché ha intitolato il suo nuovo saggio La fine della madre (Neri Pozza)? Si parla sempre di crisi del padre...

«Tutti parlano di appannamento della figura paterna, è vero. Però mi ha molto, molto fatto riflettere che, in Paesi considerati civili, dell'Occidente, e non del Terzo mondo, sia considerato normale l'utero in affitto».

Lei non lo considera «normale».

«È una pratica orrenda, una nuova schiavitù delle donne. Invece è accettata, e considerata accettabile».

Che cosa c'entra con la fine della madre?

«Nega ogni valore alla maternità, intesa come gravidanza e parto, che ne sono alla base».

Perché parla di schiavitù delle donne?

«C'è un'apparenza di libertà. Queste donne, che danno il loro utero in affitto, sono considerate libere proprietarie del loro corpo: ne fanno l'uso che vogliono, guadagnano anche dei soldi e fanno felici altre persone. Si parla di consenso...».

Invece?

«Si cerca di trasformare questa operazione in un gesto altruista, anche se è chiaro come tutto sia fatto per soldi. Se no, perché solo le donne povere si prestano e vengono pagate per farlo? In genere, nei Paesi del Terzo mondo è la famiglia che le vende: sono sfruttate da ogni parte».

Cambia il significato della parola «madre»?

«Anche della parola genitori. Perché possono essere anche due padri, i quali si considerano una famiglia, come se si potesse procreare senza una donna. Però per farlo due uomini devono affittare un utero».

Perché parla di privatizzazione della maternità?

«In questo mondo di uteri in affitto e procreazione assistita con gameti non dei genitori si rompono i legami sociali e fra le generazioni. Così la maternità diventa un affare privato, che riguarda un desiderio privato».

Nel libro sostiene che sia stata la rivoluzione femminile a fare perdere alle donne il loro «vantaggio» sugli uomini.

«È stato un incrocio fra la rivoluzione femminile e quella sessuale, che a un certo punto si sono incontrate e potenziate una con l'altra. A fine Ottocento erano molto diverse».

Può spiegare?

«La prima voleva fare accettare le donne nel mondo degli uomini, ma conservando la diversità. La seconda nacque per fare una selezione eugenetica, per avere bambini sani; ma con gli anticoncezionali ha permesso di avere una vita sessualmente libera».

E poi?

«Poi la seconda rivoluzione è diventata un liberi tutti: sciogli il rapporto sessuale dalla riproduzione, togli il peso della responsabilità e alla fine diventa un momento solamente ludico, che non ha a che vedere con legami o impegni. Certo poi le donne devono assumersi un'altra responsabilità».

Quale?

«Di prendere ormoni per non procreare, o di abortire per non procreare. E questo cammino, che viene raccontato come libertà, può essere raccontato come un nuovo peso sulle spalle delle donne».

E nelle mani di chi è il controllo? Degli uomini?

«Sì. I maestri della rivoluzione sessuale erano tutti uomini. Gli uomini hanno sempre avuto invidia della capacità di procreare delle donne: la capacità, quasi magica, di dare la vita».

La rivoluzione femminile sarebbe stata solo una illusione secondo lei?

«No. Ha creato un cambiamento sociale effettivo enorme, ma non ha portato la felicità. Ha portato altri guai».

Che genere di guai?

«Per le donne è diventato difficile essere madri. Per l'uomo c'è tempo, non ha più bisogno di sposarsi per iniziare la vita sessuale; per le giovani invece c'è un problema di orologio biologico. Ormai è difficilissimo avere un figlio negli anni fertili; poi è difficile trovare un padre; e quando provi, ormai in là con gli anni, è difficile concepire».

Ma questa perdita di vantaggio è anche concettuale?

«Se la maternità diventa un prodotto sul mercato, dove si può comprare l'utero di una donna o, peggio, ci sarà un utero artificiale, allora le donne perdono tutto il grandioso potenziale, reale e simbolico, di dare la vita».

È il trionfo di quella che chiama ideologia dell'uguaglianza?

«Nella nostra società serpeggia l'idea che, se siamo tutti uguali, siamo tutti felici. L'ultima forma presa da questa utopia dell'uguaglianza è che non ci siano differenze fra uomini e donne: e la prima differenza da cancellare è proprio la maternità».

Invece nasce il diritto al figlio.

«Sì, che non esiste. Giuridicamente non c'è: chi lo può garantire? Lo Stato? I medici? I tribunali? Nessuno può. Però nella mentalità comune si è sviluppata questa idea che chiunque abbia diritto a un figlio».

E come si è sviluppata?

«Perché c'è questa cultura del diritto, che confonde i desideri con i diritti appunto. Nella nostra cultura il desiderio impera, perché il mercato implica il desiderio; e così i desideri diventano diritti. Ma il diritto al figlio è tutt'altra cosa dal diritto del figlio».

Che cos'è il diritto del figlio?

«È il diritto dei bambini a essere protetti, ad avere una famiglia, a non nascere in queste circostanze, strappati alla loro madre».

Ma le adozioni...

«Le adozioni mettono una pezza a un dramma che la vita ha generato; qui il dramma è voluto, per l'egoismo di due adulti».

Chi è la madre quindi?

«In queste circostanze complesse, con una donatrice, una madre che porta il figlio nella pancia e una committente, uno non sa più chi sia la madre. E poi quello che avviene nel corpo della madre - che prima era indisponibile e oggi è diventato una risorsa economica e sfruttato come tale - ora viene gestito da medici e avvocati, che stabiliscono le regole. La madre è sostituita da una folla di gente».

E il padre?

«La paternità è estremamente indebolita, ma paternità e maternità vanno insieme: se scompare una, scompare anche l'altra».

C'è un futuro per la madre?

«Speriamo. Se non si faranno tutti i bambini nell'utero artificiale, sì. Ci stanno provando sul serio».

Un argine quale può essere?

«Il riconoscimento del valore della madre, come donna che offre il suo corpo per un figlio e rinuncia a sé per quasi due anni, per dare vita a un essere umano».

Riconoscimento da parte di chi?

«Da parte della cultura, della società, di tutti noi. Le giovani donne sono molto critiche verso il femminismo tradizionale, e vogliono avere figli.

Vedremo che cosa succederà».

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