Cultura e Spettacoli

Uri Caine: "Da Mahler al puro jazz sempre improvvisando"

Parte oggi il tour del virtuoso pianista che spazia dalla classica all'hip hop. Debutto con Dave Douglas a Torino, poi con Paolo Fresu e Han Bennink

Uri Caine: "Da Mahler al puro jazz sempre improvvisando"

Il suo stile pianistico è un fiume in piena che tracima dalle solite coordinate musicali per portare jazz, suoni classici, improvvisazione in un unicum dove l'armonia è sovrana. Non è facile classificare Uri Caine, ma basta ascoltarlo nelle sue molteplici manifestazioni sonore - dall'esecuzione delle bachiane Variazioni Goldberg al nuovo, tumultuoso album di piano solo Callithump - per spiegare il suo onnivoro e instancabile talento. Caine ha sempre idee nuove, cambia sempre accompagnatori come dimostra il suo tour italiano che lo vedrà, tra gli altri concerti, impegnato domani a Torino con un altro sperimentatore estremo come il trombettista Dave Douglas, il 13 maggio a Ravenna con Paolo Fresu, il 14 a Vicenza col batterista Han Bennink e poi in solo e con orchestra.

Lei è il musicista eclettico per eccellenza.

«Non ho mai voluto rimanere imbrigliato in un genere o in uno stile. Credo che la musica sia un continuum senza barriere guidata dalla sperimentazione e dall'improvvisazione».

Come si fa a unire musica classica e improvvisata in modo così naturale?

«Si tende a pensare che la musica classica sia qualcosa di statico e immutabile. Invece è un suono che suggerisce continuamente nuove strade, basti pensare alle Variazioni Goldberg eseguite da Glenn Gould, nella sua versione, impreziosiscono l'opera di Bach. L'obiettivo è quello di reinterpretare i classici, farli rivivere, per questo anch'io ho suonato le Variazioni».

Se è per questo ha reinterpretato anche Mahler, Mozart, Beethoven.

«Da ragazzo ho studiato piano classico, ma la mia mente è sempre stata aperta alla ricerca. I pezzi per pianoforte di Mozart sono inimitabili, ricordo di averli eseguiti a Città del Messico, durante le celebrazioni mozartiane, in un concerto che ricordo ancora adesso. In Mahler trovo ci sia molta improvvisazione così come nell'opera di Bach».

Cosa vuol dire per lei improvvisazione?

«Libertà ma non anarchia. L'improvvisazione è un linguaggio musicale molto complesso e che arricchisce la composizione».

Il suo ultimo album di piano solo ne è un esempio?

«Improvvisare non vuol dire negare la musica scritta, anzi. I brani di questo disco sono stati registrati come dal vivo, “buona la prima”, e sono un viaggio tra passato e futuro».

Chi sono i musicisti che l'hanno più influenzata?

«Miles Davis e John Coltrane per la loro ricerca, Stravinsky, Berio, Boulez e Frank Zappa nell'arte contemporanea».

I suoi pianisti preferiti?

«Tutto si riflette nella mia musica. Amo Gould e Arturo Benedetti Michelangeli ma anche lo stride piano di James P. Johnson, e da ragazzo ero innamorato del virtuoso pianismo blues di Otis Spann nella band di Muddy Waters».

Nel passato ha sperimentato anche con l'hip hop e il funk.

«In dischi come The Philadelphia Experiment ho lavorato con artisti moderni, è stato molto interessante seguire nuovi linguaggi, così come rileggere le pagine di John Zorn, con cui spero di fare qualcosa quanto prima».

Ha già nuovi progetti?

«Certo, sto componendo un'opera per un coro gospel e intanto scrivo per piano e orchestra. Poi tra settembre e ottobre tornerò in Italia per una tournée più lunga, collaborando con altri artisti».

Si offende se la definiamo un jazzman?

«Il jazz è la matrice da cui nasce la mia musica, e la musica per me è tutto, è qualcosa che rende emozionante la mia vita».

Com'è il jazz oggi?

«Molto vivo e molto brillante; mantiene le radici afroamericane ma è diventato una cultura universale».

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