Cultura e Spettacoli

"La mia Londra arrabbiata fra tristezza e spettri"

Lo scrittore in Italia racconta l'Inghilterra della Brexit: «La gente è infuriata, l'ha mostrato così»

"La mia Londra arrabbiata fra tristezza e spettri"

Dice Jonathan Coe che è «molto felice» di essere a Mantova: «Ero venuto qui nel 1999 con La casa del sonno, e poi di nuovo nel 2007 con La pioggia prima che cada, e l'accoglienza è stata sempre così calorosa. Ma venire una volta ogni otto o nove anni è troppo poco». Sarà anche che, come dicono, è più amato in Italia che nel suo Paese... «È vero: ho venduto più copie dei miei libri in Italia che nel Regno Unito, e anche più che in ogni altro Paese europeo. Non so perché, ma ne sono molto grato». Questa volta parla dell'ultimo romanzo, Numero undici, scritto prima della Brexit (pubblicato in Italia da Feltrinelli, come gli altri suoi libri, da La famiglia Winshaw a La banda dei brocchi fino a Expo 58), che però già delinea alla perfezione un Paese, e un popolo, che a giugno avrebbe votato contro ogni previsione al referendum per uscire dall'Europa. Un noir che parte dall'epoca di Blair e della guerra in Irak e arriva fino alla austerity e alla Londra degli oligarchi.

In Numero undici c'è un sentimento forte di rabbia. Perché?

«Credo che basti osservare quello che sta succedendo nel Regno Unito, e in America, in Francia, in Austria e anche in alcune zone dell'Italia per vedere che ovunque le persone sono arrabbiate. È dalla crisi finanziaria del 2008 che soffriamo molto, e però sembra che a nessuno ne sia stato chiesto conto: i politici e i banchieri pare che vadano semplicemente avanti come prima, in alcuni casi diventando ancora più ricchi. Così le persone sono arrabbiate. E ora cominciamo a vedere i risultati».

Perché ha voluto trasmettere un senso di inquietudine, che attraversa tutto il romanzo?

«Perché credo viviamo in un'epoca inquietante, e che il tempo per ridere dei nostri problemi sia probabilmente finito».

E perché il finale è così orribile e irrealistico?

«Volevo sconvolgere il lettore, ottenere una reazione. Ad alcuni non piace il finale, ma non mi importa. Preferisco che non piaccia, piuttosto che mettano giù il libro con una scrollata di spalle e passino ad altro».

Nel libro i ragni incarnano la paura. Perché i ragni?

«In realtà incarnano la rabbia. Ed è per questo che sono così spaventosi: perché, dopo tanti anni di pace e di stabilità, abbiamo paura di questa rabbia che iniziamo a percepire. Dove ci porterà: alla violenza, alla rivoluzione? Da molto tempo non abbiamo esperienza di queste cose. È un pensiero che ci terrorizza».

C'è tristezza nel libro. È triste per il mondo di oggi, per il suo Paese?

«La malinconia deriva più dalle questioni personali che da quelle politiche: il passare delle stagioni, il diventare adulte di Rachel e Alison, la loro perdita dell'innocenza, e la morte del nonno di Rachel. Mio padre è morto tre anni fa e molti dei miei sentimenti per lui sono finiti nel libro».

Personaggi e fatti sembrano raccontare, in anticipo, il popolo della Brexit. Come ha reagito al voto? Pensa siano stati fatti degli errori?

«Questo è un argomento che meriterebbe un saggio intero, probabilmente un romanzo a sé. Molte persone pensano che sia stato molto imprudente da parte di David Cameron indire un referendum su questo tema, quando il risultato non era affatto certo: questo è stato il primo errore, e il più grande».

Ma se lo aspettava?

«Pensavo ci sarebbe stata una vittoria esigua dei Remain, ma non sono stato molto sorpreso quando, al contrario, c'è stata una vittoria esigua dei Leave. Come ho detto, le persone sono arrabbiate e questa è stata una opportunità per mostrare la loro rabbia. Il fatto che l'Unione europea abbia poco a che fare coi problemi dei britannici è stato irrilevante».

Nel libro ci sono frustrazione, rabbia, senso di spaesamento: la Gran Bretagna di oggi è così?

«Sì, la Gran Bretagna attraversa una crisi di identità: in un mondo globalizzato, con così tanta immigrazione, tante persone che si spostano, siamo costretti a lasciar andare il nostro senso di nazione indipendente, così vecchio stile, ed è un processo doloroso. Soprattutto nel caso della Gran Bretagna, che ancora prova grande orgoglio per la sua storia imperiale, e ha ancora il senso forte di essere una potenza mondiale. È dura ammettere che questo potere sia diminuito e debba essere condiviso».

Lei è un laburista, ma c'è una coppia di vecchi conservatori, i nonni di Rachel, che sono fra i personaggi più amabili del libro. Come mai?

«Come ho detto prima, il personaggio del nonno di Rachel è basato in qualche modo su mio padre, che è stato un conservatore per tutta la vita. Non volevo che il romanzo fosse un libro politico, o un manifesto: in passato credo di avere avuto la tendenza a dipingere i miei personaggi di destra in modo troppo crudele, troppo semplicistico. D'altra parte non credo che la vecchia dicotomia di destra-di sinistra sia ancora rilevante nel mondo di oggi».

Di recente ha detto che in qualche modo rimpiange Margaret Thatcher, che ha così tanto criticato in passato...

«Nonostante i molti aspetti per i quali sono in disaccordo con le sue politiche, credo che almeno fosse un politico onesto. E serio. Oggi ci troviamo di fronte la prospettiva di essere guidati da persone che non sono niente di tutto ciò. Preferirei essere guidato da Margaret Thatcher che da Donald Trump, di sicuro».

Vive a Londra dalla fine degli anni Ottanta: come è cambiata? È così inquietante come nel romanzo?

«Londra è diventata una città sempre più globale e multiculturale, il che mi piace. Ma uno dei problemi è che i ricchi del mondo comprano case e appartamenti senza alcuna intenzione di viverci. E così alcune zone della capitale, come Chelsea, dove vivo, sono praticamente vuote per la maggior parte dell'anno. Non c'è vita nelle strade. Sono diventate spettrali, stregate».

Lei ha studiato in una scuola statale a Birmingham, poi si è laureato a Cambridge e a Warwick: questa formazione come ha influito sulla sua vita e sulla sua esperienza di scrittore?

«Ho cominciato come un outsider, un ragazzo qualunque della classe media della periferia di Birmingham. E poi, quando sono andato a Cambridge, suppongo di essere diventato un membro dell'establishment. Tutto questo mi ha formato come scrittore, dandomi una doppia prospettiva, che è stata utile per scrivere i miei romanzi».

La musica è una sua passione. Avrebbe preferito essere un musicista o è felice così?

«Sono piuttosto contento. La musica è il mio hobby e la scrittura è la mia professione, e mi sta molto bene così».

Nel romanzo c'è solo un accenno, ma le piace davvero Downtown Abbey?

«Certo, è molto divertente. È la visione nostalgica di uno scrittore conservatore di come funzionassero le relazioni fra le classi. Perciò mi piace, come prodotto di fantasia..

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