Cultura e Spettacoli

Alfonso Cuarón: "Il mio mondo di donne: abbandonate e coraggiose"

Il regista in "Roma" omaggia la forza femminile attraverso i ricordi familiari a Città del Messico

Alfonso Cuarón: "Il mio mondo di donne: abbandonate e coraggiose"

Sembra un paradosso ma non lo è. Perché la realtà è sempre più complessa e in fondo libera delle etichette. Qui alla 75esima Mostra del cinema di Venezia sono le donne le vere protagoniste di tanti film diretti da maschi. Non fa eccezione Roma, il nuovo e atteso film di Alfonso Cuarón che proprio qui al Lido, quattro anni fa, con lo spaziale Gravity (omaggiato autoironicamente attraverso le immagini di un vecchio film su due astronauti) aveva iniziato la sua inarrestabile corsa agli Oscar, ben sette. Il regista, che torna a girare nel suo Messico diciassette anni dopo Y tu mamá también, scava dentro la propria memoria familiare, cambiando completamente registro e toni rispetto al suo cinema, per mettere in scena un anno particolare, quello a cavallo tra il 1970 e il 1971, quando aveva 9 anni e viveva con la famiglia - padre, madre e tre fratelli - nel quartiere residenziale della media borghesia di Citta del Messico chiamato «Roma» come il titolo del film che vedremo a dicembre su Netflix e in alcune sale cinematografiche. Neanche tanto sullo sfondo i complessi movimenti sociali dell'epoca, con le manifestazioni studentesche e il massacro del Corpus Christi (meno noto di quello di tre anni prima durante le Olimpiadi) in cui un gruppo paramilitare uccise più di un centinaio di persone.

«Non importa quello che ti dicano, siamo sempre sole», è la frase centrale pronunciata da Sofia (interpretata da Marina De Tavira), la mamma della famiglia alla domestica, Cleo (Yalitza Aparicio), vera protagonista del film piuttosto corale. Difficile darle torto dal momento che il marito molla da un giorno all'altro la famiglia per l'amante e va in vacanza ad Acapulco e, quando la domestica rimane incinta, il futuro padre se la dà a gambe appena lo viene a sapere. Spetterà dunque a loro due, con l'aiuto della nonna anziana, tenere in piedi tutta la famiglia. «Il film è fatto da queste donne anzi, meglio, è queste donne. Se ha un effetto è grazie a loro» racconta il regista incontrando i giornalisti.

Il potere alle donne?

«A casa mia le donne sono state quelle che hanno portato avanti tutto, praticamente non c'erano uomini. Ma, ad esempio, il personaggio principale di Cleo rappresenta quello reale della mia baby-sitter che io consideravo alla stregua di una mamma. E da piccolo non ragioni mai sull'identità di una mamma, perché non la vedi mai come una donna. Girando questo film ho cambiato il mio punto di vista».

Il film l'ha diretto, prodotto, scritto e fotografato. Dire che sia autobiografico è quasi riduttivo...

«È l'opera più autobiografica che potevo fare. Abbiamo recuperato il settanta per cento dei mobili originali e dei quadri della mia casa che abbiamo interamente ricostruito con i mosaici originali. Abbiamo poi girato nella strada della mia infanzia, nella casa di campagna, nell'edificio reale del massacro degli studenti. L'obiettivo era dialogare con la memoria, tornare a quell'epoca lontana ma con la prospettiva di oggi».

Ossia?

«Quando ricrei i momenti che hai vissuto, nella tua testa succedono tante cose. Ho deciso di far incontrare il presente con la memoria. Per questo mi sono avvicinato a questi ricordi».

Cosa le manca di più degli anni '70?

«La musica senza dubbio».

Il film può ricordare alcuni melodrammi messicani dell'età d'oro che a loro volta erano influenzati dal neorealismo italiano.

«È il primo film in cui ho cercato di eliminare qualsiasi citazione. Non volevo che un'inquadratura potesse ricordare un altro film o le pagine di un libro. Volevo fare qualcosa di diverso. Poi certo nel mio Dna è indubbio che ci siano Scola, Taviani, Pasolini, Rossellini, Fellini...»

Perché ha deciso di girarlo in bianco e nero?

«Era uno degli elementi portanti alla base di tutto il mio processo artistico. Ma non l'ho mai pensato in maniera nostalgica, direi anzi che sia un bianco e nero contemporaneo, girato al massimo della tecnologia digitale in sessantacinque millimetri. Volevo raccontare il passato con questo formato del presente».

Cosa pensa della polemica degli esercenti cinematografici contro i film prodotti da Netflix?

«Roma sarà proiettato anche al cinema, non vedo il problema. È evidente che il grande schermo è la forma più giusta per vedere un film. Ma c'è anche chi non ha la possibilità di andare al cinema. E poi sappiamo, come in questo caso, che un film in spagnolo, anzi in lingua indigena e in bianco e nero, ha più difficoltà a trovare gli spazi. Questo è il motivo per cui è importante avere anche Netflix a cui sono molto grato».

Ma alla fine, ripensandoci bene, perché ha voluto fare un film sulla sua giovinezza?

«...

Forse perché sto diventando vecchio».

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