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"Il mondo è una zattera E come sulla Medusa l'umanità può regredire"

Nel romanzo sul celebre naufragio lo scrittore austriaco riflette sul destino di ogni società

"Il mondo è una zattera E come sulla Medusa l'umanità può regredire"

Il cuore etico di questo romanzo impressionante, tracotante, truce, atroce è a pagina 431. «Era come se il mondo intero non fosse fatto d'altro che di mascelle ruminanti, di molari digrignanti, il cui crepitio, biascichio, strofinio perforava il cervello di tutti». La fame sfasa la dissertazione morale: il cuoco arma il coltello e «piantò la lama fino al manico nella carne di quel cadavere». Naufragi. Cannibali. Il cardine etico di Thomas Hobbes (homo homini lupus) e la più cruenta tra le Leggi di Manu dell'India ancestrale («cibo e divoratori di cibo: così considera il mondo»), trovano sintesi sulla zattera della «Méduse», la fregata francese naufragata nel luglio del 1816: partita da Rochefort sarebbe dovuta approdare in Senegal. Le sorti progressive della civiltà europea fanno in fretta a sfaldarsi, a sfatarsi, maledette dalla rottura del sacro tabù, il cannibalismo.

Intorno a La zattera della Medusa l'austriaco Franzobel (pseudonimo di Franz Stefan Griebl) ha compilato un romanzo mostruoso edito dal Saggiatore (pagg. 544, euro 25), che è l'equivalente del quadro rivoluzionario di Théodore Géricault (realizzato due secoli fa): livido, corrosivo, eccessivo, spietato. Il libro, che gronda odore di carne e di macello («le sorelle Lafitte, come le piante che fioriscono un'ultima volta nell'ora della loro morte, si gettavano fra le braccia dei primi militari che gli venivano a tiro. E se i poveri malcapitati non volevano saperne, gli si avvinghiavano addosso come enormi ragni alle loro vittime»), mette a nudo il sopruso, la violenza e l'implacabile ingiustizia che soggiace a ogni comunità umana. La scrittura ubriaca.

Il romanzo, che traccia una parabola opposta al Robinson Crusoe (insieme, gli uomini non portano l'ordine ma deflagrano in un caos di morsi), è una specie di Moby Dick a contrario. La balena bianca, il mostro, l'harem del demonio, non guizza tra gli oceani, ma ride, febbricitante, nel torso di ogni uomo.

Il romanzo è impressionante per due motivi: linguaggio e capacità visionaria. Come è nato il progetto di un romanzo sul naufragio della «Méduse»? Quali sono stati i documenti storici che ha studiato e gli autori di cui si è nutrito per trovare questa lingua particolare?

«Mi sono innamorato subito di questa storia mostruosa. Ovviamente, mi sono impegnato per ottenere tutta la documentazione possibile, soprattutto il resoconto di Savigny e Corréard, i due sopravvissuti. Inoltre ho letto molti romanzi marinareschi e ho guardato film storici di quel periodo. Poi, mentre lavoravo al romanzo, sono stato a Rochefort, dove è conservata una riproduzione della zattera nel museo marittimo; e anche in Senegal, dove alcuni pescatori mi hanno portato al banco di sabbia davanti a Saint-Louis. Ho cercato di raccontare la storia nel modo più veritiero possibile, ma naturalmente è pur sempre un romanzo con libertà letterarie. Volevo raccontare la storia in modo avvincente, alla Stephen King, ma con un linguaggio potente e ricco d'immagini come quello dei grandi narratori. Volevo creare un ritratto letterario del grandioso quadro di Géricault».

Non so se ha voluto, in modo velato, riferirsi, pur parlando di un fatto storico, ai migranti nel Mediterraneo. Piuttosto, le chiedo che rapporti ci sono, nel suo lavoro, tra scrittura e «cronaca», tra atto letterario e «politica»?

«Nel romanzo non ci sono le catastrofi dei profughi nel Mediterraneo, ma come lettore ci si pensa immancabilmente. Essere espliciti non è necessario. Sono passati quindici anni da quando ho saputo per la prima volta delle migliaia di affogati e ne fui sconvolto. Certamente, il romanzo è anche una reazione a questa grande vergogna del nostro tempo. Ma capovolge la storia: non mostra la miseria dei boat people, ma ciò che succede quando gli europei, i presunti civilizzati, finiscono in una situazione del genere. D'altra parte, cerco di raccontare storie che saranno ancora valide tra cinquanta o cento anni, per cui mi occupo poco di cronaca. Non ho una televisione e anche i giornali li leggo ormai a malapena, perché sento che le notizie in risalto mi contaminano e mi sporcano».

La zattera, in ogni caso, costituisce il simbolo della «comunità». In uno spazio stretto, presi dalla fame, gli uomini si uccidono. Il cannibalismo sembra una metafora della vita sociale. L'uomo è, simbolicamente, cannibale, mangia il prossimo suo?

«La zattera può essere metafora di ogni società. Galleggia nel mare senza guida e ci sono sempre nuovi gruppi che combattono tra loro. A volte sono i superiori contro gli inferiori, a volte i bianchi contro i neri, oppure i francesi contro altre nazioni... In qualche modo, l'uomo è un guerriero solitario che, se necessario, non esita a uccidere. Però penso che uno dei compiti dell'arte sia quello di rendere gli uomini consapevoli di quanto sottile sia il confine della civilizzazione, e quanto basti poco per liberare la bestia che si dimentica della sua umanità. L'abbiamo visto nelle guerre jugoslave, in Ruanda, in Cecenia e ultimamente in Siria. Assistiamo continuamente a culture altamente civilizzate che diventano barbare; la civilizzazione non è scontata, e dobbiamo lottare per averla».

Dal romanzo trasuda un concetto negativo di umanità. L'uomo è rapace. L'uomo è violento. Non si cura del debole, lo opprime, perché è l'egoismo, spietato, che domina ogni atto. Che idea ha dell'uomo?

«Credo che nell'uomo ci sia del buono. Ma ho anche paura dell'uomo, perché dentro di lui è assopita una bestia, un ricordo genetico di milioni di anni di lotta per la sopravvivenza, qualcosa che sa di rettile, che è ferino».

Qual è il libro o l'evento che l'ha formata, che l'ha convinta a percorrere la via della scrittura? E perché si scrive, perché trascorrere - come scrive a proposito della Medusa - «migliaia di ore» nei regni della propria fantasia?

«Non lo so. Da bambino leggevo molto Topolino, poi Sherlock Holmes. Penso sia un bisogno primario degli uomini prendere parte alle storie di altre vite. Per questo le narrazioni ci saranno sempre. Se saranno sempre trasmesse nei libri resta da vedere. Forse le serie tivù sono più appropriate.

Ma per me il sentimento provocato dai libri rimane quello più intenso e persistente».

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