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Morto Sanavio Amico di Pound e grande critico fuori dai giochi

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Morto Sanavio Amico di Pound e grande critico fuori dai giochi

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Davide Brullo

Per prima cosa, mi pigliò a manate verbali. Era per un pezzo su Thoreau. Non l'avevo citato. «Thoreau, nel dopoguerra, quando nessuno lo voleva, l'ho inventato io». Aveva ragione, spaparanzato nell'attico del proprio ego. Nei '50, per Neri Pozza, ha «sdoganato» lui il guru della disobbedienza civile. Prima ancora m'aveva ricordato che «mia moglie ha imparato a pescare alla mosca a 13 anni, istruita da Ernest Hemingway», che Giuseppe Ungaretti era stato il suo testimone di nozze, che l'incontro con Jorge Luis Borges non lo eccitò, «fu del tutto sterile», preferiva l'amicizia di Lawrence Durrell, quella con Witold Gombrowicz, su cui realizzò un documentario per la Rai, nel 1969, e la mano gelida e pretesca di Thomas S. Eliot, conosciuto a Londra, nel 1956. Aveva la faccia cesarea, il busto da picchiatore, Piero Sanavio, classe 1930, bilioso e geniale esegeta degli irredenti; se ne è andato pochi giorni fa. Lavorò al fianco di Dominique de Roux curando il Cahier de L'Herne dedicato a Ungaretti, nel 1969, e coordinando quello per Pound, nel 1965. Tassista a Boston, professore a Puerto Rico, Yale e Harvard, inviato in Africa per conto dell'Unesco, Sanavio, ventenne, resta folgorato dai Cantos su cui si laurea vola negli Usa, è uno dei pochi che «Ez» accoglie, al manicomio criminale, il St. Elizabeths. «Una volta al mese scendevo a Washington per visitare un vecchio, rinchiuso in manicomio. Ezra Pound, dal quale ho imparato quel poco che so, tolta la politica... l'esempio umano più assoluto del rifiuto d'ogni compromissione, anche nell'errore», scrive, introducendo una memorabile intervista a Pasolini.

Su Pound, Sanavio scrisse due classici del genere: La gabbia di Pound (1986; 2005) e Ezra Pound. Bellum perenne (2002). Lo conobbi nell'antro luciferino dell'editore Raffaelli. Stava correggendo le bozze di Ancora su Céline (2013). Qualche anno prima aveva pubblicato Louis-Ferdinand Céline. Virtù dell'odio (2009). «Céline era antisemita fin nelle viscere», urlava. «Era un uomo orrendo. Ciò non toglie che sia stato uno scrittore formidabile». Non sopportava l'iridescente agonia della letteratura italiana, «puro ripiegamento narcisistico». Si sentiva brutalmente incompreso. «I giornali mi detestano, le grandi case editrici non mi vogliono, dicono che sono difficile. La cosa importante è scrivere e sopravvivere. Non ho rimpianti, ma una specie di orgoglio: sono sempre stato fuori dai giochi». Aveva ragione, ancora.

Sembrava evaso da un romanzo di André Malraux; ha vissuto come se fosse un Lord Jim, in forma diacronica, fuori tempo, d'altri tempi, oltre.

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