Cultura e Spettacoli

Négar Djavadi, non si fugge al proprio destino

Un grande romanzo d'esordio che narra il passaggio dalla Persia a oggi attraverso tre generazioni

Négar Djavadi, non si fugge al proprio destino

Non si fugge al proprio destino. Si può impiegare una vita nel rimuovere le tracce del passato, ma questo farà la sua comparsa quando magari si pensa di averlo sconfitto. Perché il passato non si cancella, prima o poi, ci si fanno i conti. È quanto accade a Kimiâ, nata a Teheran, in esilio a Parigi dall'età di dieci anni e adesso alla faticosa ricerca di una identità, anche sessuale. Che sembra costruirsi tra Parigi e Bruxelles, «senza legami né complici, libera e sola». All'improvviso, però, i Jinn, i genii della lampada, la catturano costringendola a rivivere la sua storia e quella di tre generazioni della sua famiglia.

Kimiâ è la protagonista di Disorientale (edizioni e/o, pagg. 336, euro 17; traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca), romanzo d'esordio di Négar Djavadi, cineasta iraniana naturalizzata francese. Come Kimiâ, l'autrice è arrivata clandestinamente in Francia a undici anni e proviene da una famiglia di intellettuali che si è opposta, prima allo Shah e poi a Khomeini. Laureata in una scuola cinematografica di Bruxelles, ha lavorato dietro la macchina da presa prima di scrivere sceneggiature. Il suo romanzo - grande successo in Francia - è costruito con tecnica cinematografica e spiega la storia recente dell'Iran, gettando una luce inquietante sulle responsabilità occidentali nella sua deriva teocratica. Attraverso le vite di tre generazioni, racconta il passaggio dell'antica Persia dal feudalesimo alla modernità. Lo fa sfiorando la poesia, commuovendo e divertendo, spostandosi, con la tecnica del flasback, da un ospedale parigino in cui si pratica l'inseminazione artificiale all'harem del bisnonno. La famiglia della protagonista appartiene all'antica nobiltà persiana e ha anche, per parte materna, raccolto l'eredità della diaspora armena. Ripareranno quasi tutti in Francia e lo sradicamento li renderà, non solo stranieri per gli altri, ma estranei gli uni agli altri.

Il romanzo apre anche una interessante parentesi sulla guerra Iran-Iraq (1980-88), la più lunga del XX secolo. Nata per un contrasto sui confini (Saddam voleva mettere le mani sulla provincia petrolifera del Khuzestan), può avere tre chiavi di lettura. Una storica: Arabi contro Persiani; l'altra di un capo laico e sunnita opposto a un capo islamico e sciita che regolarmente invita alla rivolta gli sciiti iracheni; infine quella di due dittature che vogliono entrambe mettere le mani sul petrolio. Oggi si dimentica che la Francia, dopo avere accolto Khomeini, senza problemi si schierò con Saddam, fornendogli armi, al pari dei sovietici.

Dal canto loro, gli Usa, pro Iraq, vendevano sottobanco armi all'Iran (da cui lo scandalo «Irangate»). Tutti poi fecero finta di non vedere Saddam che usava i gas contro i curdi iracheni e l'esercito iraniano. Isolato e radicalizzato, l'Iran si avvicinò alla Siria. Probabilmente, alla fine di quella guerra sanguinaria e rovinosa quanto inutile, i mullah pensarono di procurarsi le armi nucleari.

I conti col passato, prima o poi, si fanno.

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