Cultura e Spettacoli

La narrativa «di pancia» della Avallone

Nel suo nuovo romanzo ci sono solo uteri e donne in attesa. Che noia

Massimiliano Parente

Alla narrativa ombelicale del narratore medio che popola i mass media del piccolo demi-monde letterario italiano si affianca sempre più la lagnosa narrativa femminile uterocentrica. Un esempio per tutti: Silvia Avallone, con il suo ultimo romanzo Da dove la vita è perfetta (Rizzoli). Siamo di fronte a una schiera di personaggi da neorealismo spicciolo, a Bologna e nella periferia di Bologna, tutti tristi e sfigatissimi e intercambiabili, letto uno letti tutti. Tant'è che tra Adele, Manuel, Zeno e Dora e chi più ne ha più li stermini, non capite più chi è incinta e chi no, perché l'essere incinta è il fulcro di questa cineseria narrativa da centrotavola per puerpere annoiate. Il fattaccio sarebbe che Adele deve dare il figlio in adozione e non se ne vuole staccare, vai avanti pagine e pagine e sei sempre allo stesso punto a croce. A un certo punto c'è un lui che non ha sposato lei e pensa alla «donna meravigliosa che non aveva sposato, con una mano dentro le sue mutande e l'altra intenta a tirarsi fuori il seno, aveva partorito due bambini, se li era portati dentro la pancia».

Una volta nominata la pancia ci sono solo pance, pance gravide o appena sgravate, ovunque. Non ci si guarda mai negli occhi, si guarda subito la pancia. «Le aveva visto la pancia. La pancia. Prima di vederle la faccia, le scarpe, la giacca, dal fondo del portico elegante di via Farini le aveva visto quella prominenza enorme. Una pancia lampante, alta e rotonda, evidenziata dal vestito premaman aderente, cucito apposta per sbattertelo in faccia, che era incinta». Ogni riga è un parto, sempre lo stesso. Serena, che come personaggio è uguale a Adele, che è uguale a Manuel, che è uguale a Fabio, va a trovare quest'ultimo in prigione e lui le dice: «Porta quella pancia fuori di qui».

Dopo pagine e pagine siamo sempre lì: «Aveva avvertito l'utero cavo, le ovaie piene di sassi, contorcersi e contrarsi». Ma non aveva partorito a pagina 30 questa con l'utero cavo? (Ce ne sono di non cavi?). Forse è un'altra. Salto 50 pagine e leggo: «La voleva, la sua pancia» e no, è di nuovo Adele. Sarà rimasta incinta di nuovo? Macché, è ancora lì, in ospedale. Ne salto altre 50 e c'è un colpo di scena: «Anche se non poteva averla, la pancia, il bambino lo voleva. E allora contava. E piangeva».

Infine ho saltato ancora e ho deciso di mollare il libro su questa metafora, a suo modo sublime, che non sarebbe venuta neppure a Eugenio Scalfari se fosse rimasto incinto: «La guardava, prona sulla sua pancia come un osso di seppia portato dal mare».

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