Cultura e Spettacoli

Nel film-quadro di Schnabel c'è un Van Gogh in stile grunge

Se il genio olandese dipingesse oggi i critici rimarrebbero indifferenti

Luca Beatrice

È radicata in buona parte degli appassionati la convinzione che il vero artista debba essere infelice, misantropo, tormentato, incompreso e possibilmente folle. Una teoria del genio romantico che ci insegue fin dai tempi della scuola: a un «vero» pittore, genio e sregolatezza, deve mancare qualche rotella. Si comporta in modo strano, povero, perché inseguito dall'insuccesso, mangia male e beve troppo, infelice in amore, inviso alla società dei cosiddetti normali.

Di questa progenie, Caravaggio è il capostipite. Pittore sconvolgente, certo, però è la drammatica vicenda biografica a tenerlo in vita. Difficile immaginare che un raffinato come il suo coevo Guido Reni possa suscitare altrettanto interesse. Il romantico Caspar Friedrich che guarda il paesaggio senza più speranza ci fa illanguidire. E quanto ai protagonisti della Bohéme parigina, da Toulouse-Lautrec a Modigliani, ognuno si porta dietro la propria sfortuna e il proprio dramma, impossibile non solidarizzare con loro.

Secondo tale criterio Vincent Van Gogh è in cima alla sempiterna classifica degli antieroi. Lui, che non ha mai venduto un quadro da vivo, che è finito più volte in manicomio, un autolesionista e suicida. Il profilo perfetto per una rockstar, perché la lunga barba rossa e i vestiti sdruciti gli danno persino un'aria grunge, ambito in cui, quanto a psicopatie e disturbi, si andava forte.

I suoi dipinti si conoscono bene eppure (o proprio per questo) non c'è mostra di Van Gogh che non realizzi record di incassi e file chilometriche, in ogni parte del mondo. Se ne continua a studiare l'inquietante figura, anche nel teatro - L'odore assordante del bianco scritto da Stefano Massini e interpretato da Alessandro Preziosi - e nel cinema, con il biopic Van Gogh. Sulla soglia dell'eternità diretto da Julian Schnabel. Il quale prima di tutto è pittore e dunque ha la capacità di uno sguardo laterale ben aldilà della trama. Dopo Jean-Michel Basquiat, al quale l'artista americano dedicò il suo film d'esordio nel 1996 raccontando la New York degli anni '80, dove entrambi furono protagonisti e forse anche rivali, ora Schnabel affronta il tratto finale della vita di Van Gogh, affidandone l'interpretazione a un Willem Dafoe in stato di grazia. Ulteriore capitolo nelle biografie degli outsider, che così tanto gli piacciono: il poeta cubano omosessuale Reinaldo Arenas, perseguitato dal regime castrista; il giornalista francese Jean-Dominique Bauby, rimasto paralizzato; la giovane palestinese Miral.

Nessuno di loro, però, può raggiungere la popolarità di un grande pittore e rispetto agli storici Van Gogh cinematografici - Kirk Douglas, Martin Scorsese - la versione di Dafoe è certamente più moderna e la regia di Schnabel dichiaratamente pittorica, con inquadrature che sembrano ispirate alle opere di Anselm Kiefer. Bellissime le immagini, strepitosa la recitazione, eppure il film non riesce a evitare del tutto l'effetto stereotipo: che tormento la vita tormentata del povero Van Gogh!

Non c'è niente da fare, invecchiando cambiano i gusti, si diventa più raffinati ed esigenti, prediligiamo più gli artisti di testa rispetto a quelli di pancia. Da ragazzi i nostri eroi sono viscerali come Michelangelo o Jackson Pollock, da adulti meglio di gran lunga l'enigmatico Leonardo o l'intelligenza acuta di Lucio Fontana. Ci rendiamo conto che i veri riformatori della pittura, ai tempi di Van Gogh, furono invece altri: prima Monet poi Cézanne, il loro lavoro è la chiave d'accesso all'arte contemporanea. Teorici e poco empatici, non susciteranno mai una passione forte come quella di Van Gogh. Che, peraltro, dal punto di vista prettamente pittorico si dimostra sovente greve, troppo primitivo e schematico, per certi versi addirittura conservatore nei suoi eccessi romantici. Sono proprio i suoi limiti a conservarne intatto il fascino e il successo. Questo olandese sporco e trasandato non smette di stupirci e il film lo dimostra. È lì sulla soglia dell'eternità, condannato dalla sua triste vita, eppure immortale. Una volta si diceva «la storia gli darà ragione».

Oggi abbiamo fretta, scopriamo tutto e subito, e davanti a un ipotetico Van Gogh saremmo rimasti quasi indifferenti.

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