Cultura e Spettacoli

Festival di Venezia, il cinema cambia pelle con la "virtual reality"

Con visori e cuffie, ci si trova immersi nelle pellicole a rapinare banche, faccia a faccia con Ciro di "Gomorra" o con l'acqua fino al collo

Festival di Venezia, il cinema cambia pelle con la "virtual reality"

Come sarà il cinema di domani si può vedere già oggi. Basta una «visione», anche solo di un paio d'ore (giusto per accreditati, niente pubblico) di «Venice Virtual Reality», prima competizione assoluta a memoria di festival per film in Realtà Virtuale: un concorso con giuria e premi reali del futuro dell'arte cinematografia, 22 opere ospitate nella nuova, avveniristica e assolutamente spettacolare (parere personale) sezione della mostra di Venezia, che parte già benissimo: film a volte spiazzanti, altri geniali, altri disturbanti - che hanno come hardware le tecnologie più avanzate del settore e come software la creatività più sperimentale degli autori. Oltre le frontiere della tradizionale visione davanti al «grande schermo».

Benvenuti nell'età della «virtual reality» che sorge, nella costellazione del Leone della 74esima Mostra cinematografica di Venezia, sull'isola del Lazzaretto Vecchio, separata dal Lido da un minuscolo braccio di mare: un lunghissimo, basso, edificio da pochissimi anni risanato e oggi al servizio della Biennale - che è uno dei più antichi della Laguna, dimenticato fino a ieri, e che ora, per contrappasso, ospita il domani. La location mattoni secolari a vista e high tech - è splendida. La sezione che ospita, di più.

I film sono tutti molto corti, da un massimo di 24 minuti a un minimo di 4/5, arrivano da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Cina, Taiwan, Corea del Sud, Danimarca e Italia. Davanti hanno il futuro, dietro una «virtuelle vague» di registi, sceneggiatori, computer e graphic designer che non vogliono mostrarti nuovi mondi, ma cacciartici dentro. Attenti. Qui l'ormai già obsoleto 3D non c'entra nulla. Stiamo parlando di cinema in prima persona, tutto intorno a noi, che esce dallo schermo e ti entra nel visore individuale. Lo spettatore è dentro la storia. Non la guarda, la vive.

E qui le storie si vivono in tre modi diversi. «Oculus Stand Up: tu sei in piedi collegato uno schermo, con visore e cuffie, immerso nella narrazione, con immagini, personaggi, pioggia, neve, vento e suoni che ti avvolgono da ogni parte, sopra e sotto compreso. «Installation»: stessa cosa, ma il tutto avviene in una piccola stanza, a fruizione individuale, dove tu interagisci e puoi modificare gli eventi. Abbiamo provato Snatch, chiusi nel caveau di una banca insieme a un gruppo di scalcinati rapinatori, e dipende anche da noi trovare la combinazione della cassaforte o finire sparati. E infine «Theater»: sempre con visori e cuffie, ma seduti su poltrone girevoli a 360°, in una sala da 50 posti. Ci siamo goduti Gomorra. We own the Streets di Enrico Rosati, unico titolo italiano in concorso, 14 minuti in panoramica sopra le vele di Scampia, faccia a faccia con Marco D'Amore, nascondendosi dentro un capannone abbandonato, guardandosi fisicamente dietro le spalle... Lo spettacolo è unico, e il senso di inquietudine pure.

La storia non è mai solo «cosa» si racconta, ma «come», e la modalità di visione non è solo una procedura tecnologica, ma uno snodo narrativo. Lo «storytelling» dipende dall'angolazione della tua testa. E la visuale rettangolare è solo una tra le tante possibilità.

I film sono di animazione o con attori reali. Le ambientazioni sono mondi post-apocalittici (come Arden's Wake di Eugene Chung: è un cartone animato che confina con Waterworld, e per mezzo film ci si sente veramente, non virtualmente, immersi nell'acqua...), storici (come The last goodbye di Gabo Arora, siamo in zona Olocausto, la prima testimonianza di sempre sulla Shoah in realtà virtuale), fantascientifici (come The Argos File di Josema Roig ambientato in un 2034 in cui tu diventi un investigatore della memoria per la Neuro Crimes Task Force che deve risolvere casi di omicidio accedendo ai ricordi delle vittime), fantastici (Alice di Mathias Chelebourg, gioco in realtà virtuale dentro il regno delle meraviglie), oppure letterari, come My name is Peter Stillman basato sul romanzo di Paul Auster Città di vetro: sei minuti di fiction a triplo livello di irrealtà in cui l'utente indossa i panni di un scrittore di romanzi polizieschi che diventa protagonista di un vero thriller. Ti togli il visore. Esci dall'ex Lazzaretto.

Torni al Lido. E continui a chiederti: ma noi chi siamo veramente in questo mondo iper-virtuale?

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